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domenica 22 settembre 2013

Come affrontare il disagio psicologico e lo stress che ne deriva! Perché ricorrere ad un intervento psicoterapico? Cos’è una psicoterapia?

Un articolo come questo nasce dalla convinzione, sorta in seguito alla mia pratica terapeutica, che generalmente le persone non hanno sufficiente conoscenza di cosa sia, ne a cosa realmente miri una psicoterapia, e soprattutto ritengo che esse, generalmente, non abbiano minima conoscenza di come operi uno psicoterapeuta.

Il mio intento non è ovviamente fare pubblicità agli psicoterapisti, ma solamente offrire informazione per far meglio conoscere quell’azione sanitaria, che pur appartenendo alla casistica dei possibili interventi per la salute dell’individuo, se ne possiede scarsa conoscenza e talvolta addirittura una errata.

E’ chiaro che per spiegare un simile argomento ci vorrebbe uno spazio di almeno 200 pagine, ma nonostante ciò cercherò di esprimere succintamente i punti salienti.
Un propedeutico aspetto da chiarire, è che la psicoterapia agisce sullo stato psicologico dell’individuo “momentaneamente compromesso”. Tale compromissione, convinzione centrale dei cognitivisti, è che sia dovuta allo stress a cui l’individuo è normalmente sottoposto nel percorso della propria vita, ma che per particolari circostanze avversive, raggiunge talvolta valori cosi elevati da comprometterne la capacità cognitiva di fargli fronte.
Inoltre concetto saliente in cui si fonda l’approccio terapeutico, ed in particolare quello che si rifà alla psicologia cognitiva, è che lo stress faccia parte della nostra vita e che non possa essere totalmente eliminato.

L’obiettivo della psicoterapia, infatti, non è quello di incoraggiare i soggetti ad eliminare lo stress, bensì quello di renderli consapevoli della sua natura e del suo impatto sul proprio stato psicoemotivo, a tal proposito propongo una espressione incisiva dell’illustrissimo psicologo americano A. Selye ”la vita sarebbe noiosa senza la sfida di situazioni stressanti”.
La meta non è quindi rimuovere o eliminare lo stress, bensì incitare le persone ad osservare gli eventi stressanti come problemi da risolvere, piuttosto che come minacce personali. Si ha perciò il fine di portare le persone a divenire degli abili risolutori di problemi, nell’affrontare le situazioni avversive che appartengono alla loro vita.
L’incremento di abilità intrapersonali e interpersonali per fronteggiare lo stress costituiscono il motore di una terapia cognitivo/comportamentale.Cosa vuol dire ciò?

Agire terapeuticamente, significa semplicemente far sviluppare competenze, alle quali attingere per incrementare le proprie capacità di tolleranza e resistenza, e far sì che diminuisca l’impatto emozionale ed i costi personali dovuti alle situazioni stressanti. Nella visuale terapeutica, il processo d’intervento è visto nell’ottica di un graduale addestramento alla crescita del paziente, facendogli acquisire strategie comportamentali e cognitive, divenendo così più abile ad elaborare le avversità della vita.Sinteticamente, l’intervento è costituito da diverse fasi:
- la prima è chiamata di concettualizzazione ove si stabilisce una relazione terapeutica collaborativa, e si aiuta capire meglio la natura degli eventi di vita causanti stress, i suoi effetti sulle emozioni e sul comportamento.

- la seconda avviene puntando principalmente sull’acquisizione d’abilità di fronteggiamento dello stress, e la loro ripetizione inizialmente in ambito clinico per poi farle seguire in vivo. In tale fase s’insegnano varie tecniche sia cognitive sia comportamentali, sistematicamente progettate in relazione ai disturbi presentati, e all’atteggiamento (dubbioso, partecipante, diffidente, fatalista, razionale, ecc.) del paziente verso il training stesso. Il terapista in tal momento s’impegna a creare nel soggetto il maggior interesse possibile, affinché quest’ultimo partecipi con forte impegno alle pratiche terapeutiche.
- l’ultima fase si fonda sul sostegno e sulla verifica nel tempo delle abilità apprese. Questo stadio consiste nel testare continuamente, mediante domande specifiche e attraverso tecniche di inversione di ruoli quanto imparato. Nella parte conclusiva di tale stadio, è, infine, chiesto al soggetto una relazione scritta in chiara matrice cognitiva, di ciò che ha vissuto nel percorso terapico, esplicando chiaramente, dal proprio punto di vista, i progressi ottenuti. Quest’ultimo compito ha il fine conclusivo di imprimere ancor meglio quello che il soggetto ha compreso e riconcettualizzato nella pratica terapeutica; come anche costituire un punto fermo al quale riferirsi negli incontri dilazionati nel tempo, che hanno l’obiettivo di un maggior ancoraggio delle nuove abilità cognitive/comportamentali acquisite, in modo che esse diventino patrimonio irrinunciabile del soggetto.

La pratica della cocettualizzazione essendo il dinamismo cognitivo nodale della terapia, ritengo meriti una spiegazione più esaustiva. Essa consiste inizialmente nell’insegnamento di procedure di automonitoraggio al fine di far acquisire al soggetto la consapevolezza del proprio modello cognitivo (le proprie credenze su se stessi e sul mondo), e delle emozioni e dei comportamenti ad esso conseguenti. In un certo qual senso esso costituisce un percorso d’autoconoscenza volto al proprio funzionamento psichico.
Il nocciolo è quello di raccogliere più informazioni possibili sulle situazioni attinenti l’insorgenza del malessere psicologico, e portarle in sede terapeutica per discuterne con il trainer. Molti individui vengono in terapia con una visuale confusa dei propri problemi, si sentono vittime delle circostanze e vivono dei pensieri e sentimenti sui quali sentono d’avere scarso controllo. Essi sono limitatamente consapevoli di quanto le loro reazioni, il modo di far fronte agli eventi e le loro “abilità” per fronteggiarli siano spesso una concausa al potenziamento e all’aggaravamento del loro stress.
Se, premessa, le reazioni che si hanno possono contribuire all’insorgenza e al mantenimento dello stress, consegue, che esiste necessariamente qualcosa che sia in loro potere di fare per controllarlo e modificarlo!
Ecco che la visuale rigida dell’essere solo vittime e impossibilitati ad esercitare un qualche controllo sulle situazioni stressanti, viene ristrutturata in termini di potere d’azione e di cambiamento.

All’inizio di una terapia le persone sono anche gravate da un dialogo interiore (il parlare tra sé e sé) disperato, impotente, caratterizzato da sentimenti demoralizzanti ed autosvalutanti e da una sorta di paralisi della propria volontà. E’ prassi quindi, nell’agire terapeutico, che si cerchi di abbattere le convinzioni che creano ed alimentano tale visuale distorta di se stessi, che mantiene il senso della propria inefficacia al fronteggiamento dello stress.
La mancanza di percezione d’autoefficacia rappresenta l’assenza del senso di personale forza, che si fonda sulla consapevolezza d’essere abili ad affrontare una determinata situazione, ciò deriva sempre dal modo di percepire sé stessi e di porsi in rapporto con la realtà
Brevemente, per incrementare l’autoefficacia percepita, si stimola principalmente la persona sia a confrontarsi con determinati compiti, secondariamente sia a cimentarsi con attività di cui è portato ad esagerarne le difficoltà, per far ciò si usano argomenti razionali e l'incoraggiamento.

E’ quindi particolarmente rilevante, ribadisco, l’incremento della consapevolezza del soggetto sul proprio ruolo nelle reazioni di stress.

Far acquisire tale centralità, è di primaria importanza, le persone sono artefici di ciò che si vivono, perciò appare ovvio supporre che esse non sono soltanto vittime del proprio stress, anzi appare alquanto palese immaginare che la propria posizione attiva (il modo personale di valutare gli eventi, come si sente, si pensa e ci si comporta) contribuisca eclatantemente al proprio livello di stress. Ne consegue, concetto estremamente centrale, che è dunque in potere del soggetto stesso porre termine o comunque diminuire la potenzialità delle situazioni avversive nell’indurre stress.
Noi siamo i costruttori della nostra realtà, artefici e vittime dei nostri pensieri, comportamenti ed emozioni!
Man mano che si raccolgono i dati, avviene la riconcettualizzazione dove si offre un modello concettuale alternativo d’osservazione dei dati raccolti, quali causa del proprio stato emotivo disfunzionale. E’ nel corso della narrazione del paziente, che lo psicoterapeuta tra informazioni utili alla comprensione delle disfunzionalità disadattive, insite nella sua struttura mentale. Egli l’aiuta poi ad osservare le avversità in termini più benigni e che siano suscettibili di mutamento.
Siamo dunque alla ristrutturazione dei problemi e dei sintomi legati allo stress, con l’offerta di un’interpretazione alternativa più adattiva e nello stesso tempo più funzionale al raggiungimento dei propri scopi di vita.

In conclusione si induce contemporaneamente nel paziente, una diminuzione delle difese egoiche parassite, un incremento della sua complessità cognitiva con lo sviluppo di capacità di comprensione dei propri stati mentali e di quelli altrui (capacità metacognitive), come anche, obiettivo fulcro, maggiore plasticità all’invalidazione delle proprie credenze, cioè maggiore facilità al decentramento dalla visuale soggettiva. Ciò significa maggiore malleabilità a concepire, il proprio modo di osservarsi e di osservare, solamente come una possibilità di costruzione relativa e non assoluta!

Mazzani Maurizio

La Psicoterapia cognitivo Post-razionalista: le emozioni


Il post-razionalismo assume come centrale per l'uomo i processi di autoorganizzazione e di costruzione del significato personale.

Un aspetto centrale da evidenziare, è che la prassi post-razionalista pone il suo fulcro d’interesse terapeutico sulla soggettività e in particolare sulle attivazioni emozionali, differenziandosi così dall’ortodossia terapeutica cognitivista, che vede nel pensiero il centro dell’agire terapeutico. E’ bene dire, che la psicoterapia nata dagli studi di A. Beck e A. Ellis, fondatori del cognitivismo terapeutico americano, si è dimostrata, nel tempo, e alla luce di innumerevoli riscontri scientifici, una delle psicoterapie più efficaci. Essa però, secondo i post-razionalisti, ha delle intrinseche limitazioni dovute ad un agire terapeutico eccessivamente razionalista e troppo orientato sul mentale, dimenticando così la componente emotiva che, conseguenzialmente cade in secondo piano. 

Nell’evoluzione terapeutica cognitivista si è presentato utile, dunque, trasformare la visione prettamente razionalista, ancorata su basi che possiamo dire “pedagogiche”, con un fare terapeutico che si dimostra, quasi come un’azione educativa, finalizzata basilarmente a correggere il solo modo di pensare e di comportarsi della persona, in una ottica terapeutica che vede nell’individualità il centro del proprio agire. Il terapeuta cognitivista ortodosso, di fatto, agendo come una sorta, di genitore solo perché adulto e quindi più sapiente e maturo, o di un insegnante che ha dalla sua parte il proprio modello di riferimento pedagogico-educativo o, infine, di un prete che ha dentro di sé la convinzione di possedere una verità al di sopra d’ogni altra, si pone, presuntuosamente, quale detentore d’un modello di vita più funzionale e buono per tutti. Il terapeuta post-razionalista invece non ha una verità superiore da offrire al paziente, ma solamente lo aiuta, attraverso perturbazioni strategicamente orientate a trovare la propria strada, il proprio modo di essere che lo renderà più conoscente e più capace di orientarsi nel mondo.

Nell’azione terapeutica post-razionalista il fulcro è lavorare con l’emozioni, badando a non dimenticare che l’esperienza è vissuta su due livelli di conoscenza. Il primo organizzativo costituito dall’esperienza immediata senso-percettiva con le conseguenti attivazioni emozionali e rappresentative ideative, tale livello essendo poco consapevole costituisce la conoscenza tacita scarsamente definita, globale (cosa, come e quando proviamo qualcosa). Nel secondo livello, attraverso l’operatività logico-analitica, che fa capo all’interprete (per maggiori informazioni leggere l’articolo: “Emisfero sinistro: l’interprete”), avviene la “spiegazione dell’esperienza” alla luce di quelle in precedenza vissute, al fine di mantenere la coerenza interna (ed è il perché proviamo qualcosa), una conoscenza, questa, esplicita e consapevole di sé e del mondo.
L’assimilazione dell’esperienza è resa possibile solo attraverso processi autoreferenziali, che utilizzano idonee spiegazioni fortemente soggettive al fine di mantenere l’orientamento su di sé che è cosa di basilare alla sopravvivenza.

L’agire terapeutico deve avvenire, pertanto, puntando l’attenzione non sulle spiegazioni che il soggetto ci offre, che sono fortemente finalizzate al mantenimento della propria coerenza anche a scapito della realtà, ma sull’esperienza immediata che fornisce, per così dire, l’accesso diretto a comprendere il funzionamento del soggetto, le sue difficoltà e i suoi sforzi di adattamento per potersi riferire l’esperienza senza che venga meno la coerenza personale, dobbiamo darci tante spiegazioni quando un’esperienza fortemente discrepante  comporta alta sofferenza.

Le emozioni non devono essere ricondotte al solo sub-stato fisiologico oggettivo che designa l’aspetto clinico disturbante, ma vanno viste nel loro aspetto adattivo. Esse, anche causando disagio, non devono essere soppresse o tenute sotto controllo come si agisce attraverso gli approcci clinici tradizionali o ancor peggio con la psicofarmacologia, ma considerarle nella loro interezza concependole per ciò che sono: messaggeri informazionali che hanno la loro ragion d’essere nel valore conoscitivo che è prioritario rispetto ai processi cognitivi, poiché esprimono più direttamente la soggettività che emerge tra l’esperienza immediata e la successiva spiegazione che la persona da a se stessa.

Tutti percepiamo l’esperienza che ci appartiene come se fosse oggettiva quando in realtà è solo una personale modo di assimilarla, di gestirla basato su cliché formatesi nel percorso evolutivo di cui spesso non né siamo neanche consapevoli. Come  ha  osservato  Tomkins, (1978), “avvertiamo di  provare un’emozione  sproporzionata  rispetto a quanto accaduto,  senza  renderci  conto  di  avere  strutturato  nel  tempo  quel  modo particolare  (unico  e  costante)  di  percepire  ciò  che  ci  capita  di  sperimentare”. Il lavoro terapico è proprio nell’aiutare il soggetto a trasformare ciò che vive come oggettivo ed esterno in interno. Esiste la tecnica della moviola, che consiste nell’analizzare un episodio critico della vita del soggetto, che viene messo a fuoco come se fossero parti di una sceneggiatura, (in pratica: il terapeuta guida il paziente nel lavoro di differenziazione tra esperienza immediata e sua spiegazione rendendolo consapevole del lavoro di attribuzione a sé che si esplica tra i due livelli di conoscenza tacito-esplicito Dodet, 1998) poi si cerca di riformulare il problema, che era stato portato in termini oggettivi ed esterni, in un qualcosa che è espressione del modo soggettivo di funzionare. Con ciò l’esperienza problematica diventa assimilabile non creando così più perturbazione critica alla coerenza interna, al momento che le emozioni vengono viste, quindi, quale prodotto del proprio modo di operare. Si punta, pertanto, a costruire un processo terapeutico che sia in grado di produrre emozioni tali da innescare un cambiamento delle emozioni critiche alla base del disturbo.

Siamo arrivati al dunque della psicoterapia cognitivo post-razionalista, che vede nell’azione sui contenuti emotivi la possibilità di una co-esplorazione (tra terapeuta e paziente) del mondo interno del soggetto, tale da poter indurre un cambiamento stabile e non solo ad un maggior controllo e ad una migliore gestione dei sintomi, che spesso riemergono in altra forma, rimanendo così il disagio di fondo iniziale.

Mazzani Maurizio

venerdì 8 marzo 2013

L’interprete “Cos’ha il cervello da consentire alla mente di essere e funzionare”


  Entriamo in dialettica con noi stessi, riflettiamo, facciamoci delle domande sulla natura della mente e sulle sue capacità di essere e di funzionare.

Di fronte a tale complessità un brivido avvolge il nostro corpo,  lasciandoci attoniti davanti al mare inconoscibile, ma che pian piano sembra apparire sempre meno segreto.

A cominciare dalla filosofia fino ad arrivare alle neuroscienze, godiamo, oggi, di quel sapere che ci rende, forse, poco, poco più consapevoli delle implicite leggi biologiche che ci riguardano.

La carta vincente è sicuramente l’approccio multidisciplinare, un approccio dove scambi tra differenti discipline permettono di sopperire ai limiti taciti di ciascuna scienza. Biologia molecolare, genetica, psicologia cognitiva, modelli computazionali, tecniche di neuroimaging, un tutto conoscitivo proprio alle neuroscienze cognitive, che si evidenziano quale ponte tra la neurobiologia cerebrale e  lo sviluppo di concetti astratti.

Dobbiamo agli studi su pazienti epilettici a cui veniva rescisso chirurgicamente il corpo calloso (blocco dell’intercomunicazione tra l’emisfero sinistro e destro), un metodo che ha dato, non solo, dei buoni risultati per la cura dell’epilessia ma anche, nel contempo, ha permesso di effettuare, sui medesimi soggetti, differenti studi testologici, che hanno dato inizio alla comprensione dell’aspetto funzionale del cervello.

Nasce proprio in seguito di tali ricerche la maggiore evidenziazione della specificità funzionale tra i due emisferi, se non ché, gli studi sul modo in cui il cervello produce memoria, ragionamento, emozioni ecc., che costituiscono il corpus della disciplina che oggi conosciamo come neuroscienze cognitive.

Eccoci, dunque, all’obiettivo: conoscere le basi della nostra coscienza e le funzioni che la caratterizzano – la simbolizzazione, l’astrazione, la metaforizzazione, ecc., insomma, conoscere la natura “magica”, di quel poco più del 2% di attività mentale che è la coscienza.

Un punto su cui soffermarsi, è che l’apprendimento, per quanto si sia diversamente pensato per anni, pare che simuli il medesimo meccanismo per selezione proprio al sistema immunitario (una cellula preesistente “immunitaria”, riconosce l’antigene, e a scopo difensivo comincia a moltiplicarsi e, eventualmente, a mutarsi e a specializzarsi per far fronte, in maniera più efficace, allo stesso, ecc.). 

Nell’apprendimento il tutto sembra avvenire similmente… l’”antigene”… l’eventuale perturbazione ambientale funge, in un certo qual senso, da selezionatore, tra miliardi di schemi, di risposte preesistenti, che vengono selezionate per individuare quella più congrua a rispondere meglio alla sfida ambientale in oggetto.

Ho già affermato che esistono delle specificità funzionali tra i due emisferi, il destro è specializzato nell’elaborazione delle informazioni socio-emozionali .
L’emisfero sinistro invece è la sede del linguaggio, del ragionamento analitico, della risoluzione di problemi, della capacità di trarre inferenze e di interpretare le nostre azioni e sentimenti.

La maggiore comprensione del funzionamento della mente viene ancora grazie ai test sui pazienti split brain e sulla convinzione del funzionamento dell’apprendimento per selezione e non per istruzione (per istruzione significa che è l’organismo che risponde all’ambiente). Il neuroscienziato Michael Gazzanica ci fornisce uno studio molto esaustivo che evidenzia proprio la presenza della funzione di Interprete del cervello sinistro. Una funzione preposta alla spiegazione del nostro comportamento.

Lo studioso racconta nell’ambito sperimentale dello split brain, che, in contesto di studio, venne mostrata alla metà destra del cervello una persona che stava facendo una passeggiata, poi successivamente si chiese al paziente di mimare ciò che stava osservando, questi si alzò in piedi e cominciò a camminare ma al momento di chiedergli cosa stava facendo, fu il suo emisfero sinistro, ignaro di quello che aveva visto il destro, a fornire la risposta attraverso una qualche invenzione razionalizzante, una spiegazione inventata di bell’appunto che ebbe un qualche senso logico (volevo solo bere qualcosa) (M. Gazzanica 2007).

E’ l’Interprete che osserva ciò che il soggetto sta facendo e fornisce una qualche spiegazione sensata (a sé stesso)… di fatto un lavoro di mantenimento di coerenza personale alla luce dei propri valori conoscitivi.

Il punto èproprio questo, ognuno di noi utilizza il proprio Interprete per spiegarsi i propri stati emotivi  (ansia, euforia, depressione, panico, rabbia, ecc.), è Lui che cerca di dare delle spiegazione sui priori cambiamenti. L’individuo cattura una variazione fisiologica, qualsiasi essa sia, una emozione che muta ed ecco l’Interprete che comincia a costruire la sua teoria di ciò che sta accadendo. 

La cosa che colpisce, é che gran parte del lavoro dell’Interprete è, spesso, di natura auto-ingannevole, poiché ha solo fine di non contrastare la consueta visione di sé stesso alla luce del contesto ambientale che lo caratterizza.

Mazzani Maurizio

La coscienza… e se fosse tutto un’illusione


Ogni creatura che si è evoluta a tal punto da godere dell’intelligenza, percezione, memoria, linguaggio ed emozioni non può che essere cosciente!


Cos’ha il cervello da permettere alla mente di essere e funzionare.
E’ proprio nell’essere e nel funzionare della mente, che la “magia” si concretizza in quel qualcosa di sensazionale che chiamiamo esperienza interiore, soggettiva e privata
Nell’affrontare la questione appare bizzarro, non potendo estraniarci dal nostro oggetto d’indagine, dover prendere atto che la coscienza si trovi proprio ad esplorare se stessa. Di fronte a tal tema sorge spontanea la riflessione sulla consapevolezza di essere consapevoli di ciò che si sta scrivendo sul proprio essere consapevoli, è un gioco di parole che evidenzia la complessità dell’argomento.

La coscienza è ciò che accompagna ogni nostra attività del ragionare, del vedere, del correre, ecc., è il riconoscere il sentimento che accompagna ogni segmento della nostra vita. La coscienza è il senso d’essere, che si delinea ogni qual volta che si ha sentimento nell’espressione di un processo cognitivo specializzato. Cosa avvincente, è che la consapevolezza del nostro Sé concettuale lavora a posteriori, essa riconosce il senso di un dato processo mentale solo dopo che è  avvenuto… “La mente può divenire consapevole solo un tempuscolo dopo che il cervello ha operato “. La coscienza nascerebbe, secondo lo studioso Libet, dopo che il cervello sia stato sufficientemente  stimolato, pare che sia necessario un tempo lungo (mezzo secondo) di attività della corteccia per far si ché compaia il fenomeno della coscienza.

Da studi sulla risposta comportamentale a seguito di richieste di compiti da parte dello sperimentatore, è emerso che il cervello si attivava prima che il soggetto avesse coscienza della scelta di agire - passavano circa 300ms tra l’attività cerebrale e la coscienza della decisione presa. Il libero arbitrio, pertanto, cosi come è comunemente inteso, cade inevitabilmente, definendosi solo come un’illusione. Libet ricavò che il libero arbitrio risiedesse non nell’automatismo della decisione, ma nel potere di veto. Emerge, dunque, in base a tali rilevazioni, che l’unica libertà decisionale, quindi cosciente, che abbiamo, come già affermò il filosofo John Locke più di duecento anni fa, sarebbe quella del veto e non quella dell’arbitrio, ma, tale evidenza rimane, ancora oggi, soggetta ad ulteriori ricerche e approfondimenti.

E’ grazie alla coscienza, dunque, che riconosciamo “il fatto” di provare delle emozioni in conseguenza a qualcosa che percepiamo. L’uomo, rispetto agli animali ha cognizione di più cose, va oltre la semplice consapevolezza delle proprie capacità. Ogni specie animale è consapevole delle proprie abilità, mentre, è propriamente umana la sensazione che abbiamo di esse: tale sensazione corrisponde al quanto d’energia che dona l’effetto della coscienza di avere un . La maggiore articolazione della consapevolezza è direttamente proporzionale alla complessità del cervello che l’ha prodotta. In poche parole, le capacità del cervello sono associate ad almeno una rete neuronale, più reti possiede il cervello tanto più sarà la consapevolezza delle sue capacità.
E’ dalla fisicità cerebrale, quindi, con la sua attività elettrica e bio-chimica di milioni di cellule che, lavorando all’unisono, si esprime, come fenomeno quantico, la coscienza. Essa è così intimamente connessa con il cervello che i mutamenti nell’uno hanno effetto sull’altra, ad esempio: le sostanze che alterano le funzioni del cervello, le lesioni cerebrali seguite a traumi o le stimolazioni sperimentali ad opera di ricercatori su cervelli con corteccia esposta, parallelamente producono alterazioni nel funzionamento della coscienza.
E’ bene chiarire che l’attività cerebrale ha un funzionamento non centrale, come intuitivamente viene da pensare, ma basato su processi paralleli e non seriali… nel linguaggio informatico possiamo dire, non una CPU centrale (Central Processing Unit – il cuore del computer) ma tantissime CPU che lavorano in parallelo, cioè contemporaneamente. Pare che sia proprio tale contemporaneità nel funzionamento di differenti zone cerebrali, anche tra loro distanti, la causa del fenomeno quantico dell’esperienza soggettiva.

Il corpus d’interesse, è l’ipotesi della coscienza quale effetto superiore del funzionamento del cervello. Si è trovato che alcune zone dello stesso siano caratterizzate da cellule dotate di qualia (gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti… cioè le sensazioni specifiche alle singole esperienze). Differenti studi hanno messo in luce in maniera chiara il nesso tra funzionamento del cervello e la coscienza, rapidamente possiamo citare il caso dell’amnesia anterograda dove il soggetto mantiene sia la memoria a breve termine sia quella a lungo termine, ma quest’ultima solo fino a un dato momento, dopo il quale il soggetto non ricorda più nulla, ciò che avviene, è che gli amnesici, come qualsiasi altra persona, vivono, da un lato, il presente come un flusso di coscienza unitario e percepiscono il nesso tra un istante e il successivo, mentre dall’altro non hanno nessun senso di continuità fra l’oggi e il domani e non possono pianificare un futuro basandosi sul passato. Altro studio ci viene dal caso di visione cieca (l’individuo che ne è affetto ha una zona cieca o scotoma nel proprio campo visivo), in questo caso alcuni soggetti sottoposti a visioni di oggetti posti proprio nella zona buia, pur rispondendo che non vedevano nulla erano capaci di orientare gli occhi nella direzione giusta, oppure erano in grado di imitare i punti luminosi che si spostavano nella zona cieca, quello che emerge è che il vedente cieco ha una visione oggettiva ma non ne ha coscienza, poiché sarebbe privo di qualia visivi.

In conclusione si può affermare che la coscienza costituisce un epifenomeno dell’attività elettrico-chimica cerebrale, e che in assenza di attività cerebrale non può esserci coscienza.  Berlucchi G. (neuroscienziato): “può esistere un cervello funzionalmente attivo senza coscienza, ma non può esistere una coscienza senza un cervello funzionalmente attivo, sfido chiunque a smentirmi”.

Maurizio Mazzani


mercoledì 18 maggio 2011

Cosa c’è alla base del rapporto affettivo… amore o dipendenza?

Da cosa nascondono espressioni del tipo:
ti amo,
ti voglio bene,
voglio stare con te tutta la vita, ecc?

Non è che voglio minare quella poesia, quel romanticismo proprio ai rapporti amorosi, ma ritengo, che saperne di più aiuti sicuramente a far meglio funzionare una relazione o a subire meno la conseguenza di un eventuale fallimento.
Una specifica conoscenza offre sempre maggiore capacità di fronteggiamento delle difficoltà del quotidiano; così una relazione amorosa potrebbe funzionare sicuramente meglio, se ne conoscessimo i meccanismi che la regolano.

In primis viene da domandarci:
- cos’è che spinge il nostro comportamento verso una o un’altra persona?
- cosa c’è dietro l’innamoramento?
- cos’è che crea l’ostinazione a mantenere in piedi una relazione ormai dimostratasi fallimentare?

I punti cardine dietro a tali domante sono riconducibili al motore motivazionale fondato sul raggiungimento di determinati scopi di vita, e alla dipendenza che si crea in conseguenza all’ottenimento o meno di essi.
Una maggiore o minore presenza di dipendenza in un individuo, è dunque in relazione al suo sistema motivazionale, ove sono in gioco il raggiungimento dei propri scopi e le credenze che si hanno su di essi.
Nella psicologia clinica e sociale la dipendenza, generalmente, è vista come un aspetto costituente una relazione disfunzionale, un deficit dell’individuo adulto nel suo funzionamento interpersonale.
La rigidità della dimensione patologica che ha da sempre caratterizzato la relazione dipendente, sembra comunque che venga, in questi ultimi anni, confutata da diverse ricerche in ambito psicologico e sociale.
Recentemente, infatti, è venuto meno quello stretto legame tra dipendenza e patologia, è emerso, che la dipendenza non sia di per se stessa disfunzionale.
L’ottica nuova con la quale osservarla, sembra essere quella di non considerarla più una caratteristica della personalità patologica, bensì una condizione oggettiva e/o soggettiva di una persona rispetto ad un’altra o, in generale, a più persone.
La dipendenza reciproca e paritaria, che incita una scambievole fiducia, sembra costituire ingrediente fondamentale per una relazione appagante e profonda. Gli individui che credono nel valore dell’autonomia personale in modo che essa sia auspicata come una condizione essenziale per il proprio benessere, sembra che vivano più difficilmente una relazione affettiva appagante, soddisfacente e profonda e che non riescano a riporre facilmente fiducia nel partner.
Purtroppo, nella realtà accade più che frequentemente, che una dipendenza funzionale e paritaria, sprofondi in una asimmetrica, ove uno dei due componenti della relazione è più dipendente dell’altro.

Un eccesso di dipendenza in una relazione affettiva cos’è esattamente?

Una persona che si trovi in una condizione di dipendenza eccessiva da un’altra, significa, in termini puramente utilitaristici, che la persona è dipendente da un’altra, quando nel raggiungimento di alcuni dei sui scopi di vita “considera” l’altra il mezzo per raggiungerli, ritenendo di non avere le risorse necessarie per ottenerli da sola o in altro modo.
Tale realtà è in relazione al numero degli scopi, ciò ovviamente inteso in senso lato, e alle credenze che si hanno su di essi.

Che significa ciò?

Semplicemente che in una relazione d’amore come anche in una qualsiasi relazione, quanto più sono gli scopi che si raggiungono, o che si creda di raggiungere, per via dell’altra persona, tanto più si è dipendenti.
In una relazione asimmetrica la quantità di scopi o il valore ad essi assegnato è tra i due diverso, o anche che la persona più dipendente ritenga, rispetto all’altra, di riuscire a soddisfare, attraverso di essa, alcuni dei propri scopi mentre l’altra no.
Nella relazione affettiva gli scopi che si raggiungono attraverso l’altro, hanno una valenza particolarmente forte, poiché riguardano il raggiungimento dell’appagamento del bisogno d’attaccamento e d’amore in primo luogo, mentre in secondo luogo riguardano la progettualità, la famiglia, i figli, il fare delle cose assieme, ecc., ecc.

E’ utile precisare che, mediante le relazioni in generale e in quella amorosa in particolare, noi raggiungiamo se stessi, di fatto l’altro è il “mezzo” attraverso il rimando del quale noi ci percepiamo, sentiamo il senso della vita. La reciprocità rappresenta una sorta di dinamismo dove ognuno, in un certo qual senso, s’alambicca per avere il maggior ritorno d’apprezzabilità, di considerazione, insomma di conferma d’amabilità personale.

Riprendendo, nella relazione affettiva l’asimmetria è una condizione frequentemente presente, ed è proprio questa che crea il malessere di coppia e quindi la sua disfunzionalità.
Talvolta, inoltre, a contribuire alla maggiore dipendenza dei due componenti della coppia si presentano le condizioni più disparate. La maggiore dipendenza è funzione delle alternative disponibili, vale a dire la possibilità di avere le stesse gratificazioni al di della relazione in questione, cioè sia se esiste la possibilità di poter fare riferimento ad altre persone differenti dal partner, sia alla possibilità di sentirsi facilmente in grado in futuro di poter soddisfare gli scopi dipendenti dall’altro, anche se nel presente ci si trova in una reale condizione di dipendenza.
Pare comunque chiaro, che la condizione di dipendenza di una relazione affettiva è fortemente favorita poiché, oltre ad essere in gioco gli appagamenti offerti dal partner riguardo a eventuali bisogni materiali, è in ballo la propria amabilità, la conferma, come già detto, di essere desiderabili dall’altro.

In una così complessa panoramica, risulta, quindi, facile comprendere come spesso sia difficile trovare il partner idoneo, che soddisfi la condizione necessaria, affinché si pongano i presupposti utili al soddisfacimento dei propri scopi. Per ottenere questo è condizione essenziale che si riesca a “convincere” l’altro a orientare il suo comportamento in modo che soddisfi le nostre mire, a tal fine c’è bisogno d’una capacità seduttiva (che costituisce, di fatto, una sorta di potere sull’altro) per superare la resistenza da questi presentata. Da qui tutte le manfrine che usualmente si presentano durante la fase di conquista e le successive gelosie e possessivismi caratteristici delle storie d’amore… un tutto utile a soddisfare il bisogno più che fondamentale di conferma di sé da parte dell’altro.
Di fatto le condizioni di cui sopra risultano non facilmente realizzabili, perciò è facile capire come il rischio di non trovare alternative favorisca la dipendenza dall’altro e il mantenimento di relazioni fallimentari!

Mettendo sempre da parte la visuale romantica dei rapporti amorosi, la caratteristica spesso ossessiva che segna l’ostinazione di una relazione affettiva in difficoltà, è dovuta agli scopi raggiunti o potenzialmente raggiunti dal dipendente attraverso il partner, che cerca di mantenere il più possibile reale la possibilità che l’altro continui a soddisfare le sue esigenze.
Sì, sembra un paradosso, ma la realtà pare essere proprio questa.
L’individuo che si trova nella posizione sfavorevole di una relazione asimmetrica, ritiene erroneamente che il partner debba necessariamente soddisfare le sue esigenze, anche se questi abbia comunicato, in diversi modi, di non essere più disponibile, ma il dipendente, offuscato dalla proprie credenze sostenute dal bisogno impellente di soddisfare i propri scopi, si trova spesso a non recepire i messaggi verbali e non verbali dell’altro, questo attraverso l’uso di diversi meccanismi difensivi (illusione, inganno, negazione, ecc.,).
E’ tipico, infatti, avere a che fare con espressioni del tipo: prima o poi cambierà, sicuramente è solo un momento transitorio, ecc. La realtà purtroppo il più delle volte è ben altra, la condizione d’asimmetria e lo svantaggio detenuto dal partner dipendente, fa sicché questi stia nel posizione tipica di rincorrere chi fugge, consolidando così la logica della complementarietà ruoli: se ne esiste uno di ruolo deve necessariamente esistere l’altro

In sintesi, l’asimmetria in una relazione affettiva dipende dalla differente importanza tra i due della coppia, attribuita agli scopi raggiunti attraverso l’altra persona. Inoltre, il dipendente ritiene o ha realmente meno alternative alla sua relazione rispetto al partner, e poco potere sull’altro nell’indurlo a soddisfare i propri scopi. Da tale punto consegue, che quanto più è presente dell’insicurezza che il partner soddisfi i propri obiettivi (mancanza di potere – affettivo, denaro, carisma, ecc.) tanto più si è dipendente da questi.
Inoltre va fatto presente che fino a quando si riterrà che il partner prima o poi soddisferà le nostre aspettative (es. mio marito prima o poi cambierà come detto) si è portati a mantenere il ruolo di sottomissione e di particolare disponibilità verso i sui bisogni, con l’obiettivo illusorio di vincere le sue resistenze e sperare nell’eventuale soddisfacimento dei propri (ecco qui di nuovo venire palesemente alla luce la complementarietà dei ruoli).

Quando si è in condizione di dipendenza, ci si trova ad essere facilmente influenzabili dal proprio partner, poiché quest’ultimo è nella posizione di favorire oppure ostacolare il nostro benessere. Vediamo che l’asimmetria relativa alla dipendenza non è altro che un’asimmetria di potere all’interno della coppia, dove chi detiene il potere maggiore può facilmente cadere nell’approfittamento o addirittura nello “sfruttamento” del proprio partner, anche se quasi sempre inconsapevolmente.

In conclusione, doverosamente aggiungo, dopo avere tecnicizzato togliendo il sipario poetico ai rapporti amorosi, che l’amore ovviamente può esistere, ma è purtroppo molto difficile contrastare la coazione costituita dal bisogno di conferma di sé!

Mazzani Maurizio

Disturbi psicogeni dell’alimentazione: anoressia e bulimia

Talvolta i giovani sono soggetti a disturbi del comportamento alimentare… perché accade ciò?

In primis, è bene sapere che questi due disturbi hanno in comune alcune caratteristiche: la ricorrenza episodica delle “abbuffate” (crisi bulimiche), il comportamento compensatorio come il vomito provocato e abuso di lassativi, indotti dal paradossale timore ossessivo di acquistare peso.


E’ bene inoltre ancora dire, che la patologia bulimica arriva talvolta perfino a sfociare in quella anoressica.
Molteplici studi si sono fatti a riguardo, ed è emerso, che i soggetti affetti da tali patologie, hanno dal lato familiare una struttura cognitiva segnata da un attaccamento contraddistinto dell’ambiguità, dall’incertezza e della confusione, tutto ciò dovuto spesso alla mancanza di sicurezza dei genitori nei loro ruoli. Per cui l’alimentazione diviene il centro del contatto col neonato; alcune volte troviamo addirittura dei figli indesiderati.


Questi genitori sono incapaci a comunicare il loro affetto, esso è frammentario e titubante, senza però arrivare alle modalità estreme delle famiglie degli psicotici ove la comunicazione affettiva è estremamente frammentata.
La reciprocità dei primi scambi, dunque, è all’insegna della confusione e della mancata chiarezza. Tale rapporto se conservato nel tempo, diviene il presupposto problematico, che rende difficoltoso per il soggetto, sviluppare il giusto amore di se stessi e di interiore sicurezza.
La figura paterna in queste famiglie possiede aspetto particolarmente deludente, egli spesso avendo difficoltà ad entrare nel ruolo di padre, è raramente presente, e le assenze che lo caratterizzano, costituiscono per il piccolo figlio dei veri propri abbandoni. Tale contesto tipo, è talvolta acuito dalla separazione tra i coniugi, poiché i figli generalmente affidati alla madre, hanno ancor meno la possibilità di relazionare con tale figura paterna.


I pazienti generalmente raccontano in terapia, di non poter dire o fare quello che volevano o sentivano, ed erano sempre a compiacere gli altri al fine di soddisfare il loro bisogno di sentirsi accettati. Troviamo con ciò, che il libero arbitrio è incentrato solo sull’alimentazione, il mangiare troppo o troppo poco diviene l’unica alternativa per esprimere se stessi!
L’esser grassa diviene una forma di rassegnazione, ma anche di protesta, l’esser magra pertanto “carina”, diverrebbe la sola chance (ipotesi: per farsi notare dal proprio padre nelle sue rare comparse).
Il cibo e l’aspetto fisico diventano il campo neutro, in cui l’adolescente può controllare il suo ambiente ed esporre le sue esigenze. Si ha così talvolta una vera e propria strategia intorno all’alimentazione.
L’ansia dovuta alle aspettative di rifiuto, (convinzioni incentrate sulla paura di non essere accettati per quello che si è) provocando disorientamento e sensazioni di vuoto, è colmata con mangiate eccessive tipiche della fase bulimica.


La possibilità di recupero d’autostima è legata al mantenimento di ferree diete con esclusione e rigetto di qualsiasi cibo, che frequentemente si alterna con improvvise crisi bulimiche.
Essendo, dunque, palesemente ovvia l’implicazione familiare, ne deriva che in caso di psicoterapia, i genitori non devono essere esclusi, onde evitare che contrastino la terapia stessa. I genitori devono non opporsi al raggiungimento dell’autonomia, ansi incoraggiarla.
Dal lato culturale, il disturbo anoressico sembra segnato dal modello della “super donna”, capace, ambiziosa e di successo, che osserva minuziosamente l’estetica della magrezza, spesso pubblicizzata come ideale di bellezza femminile dall’industria della moda, tutto ciò sembra favorire, in tali soggetti, sentimenti d’inadeguatezza.
Le conseguenze del digiuno o dell’eccessivo mangiare, assumono valore di rinforzo negativo (evitamento dell’ansia), che insieme a rinforzi di tipo positivo (ipotesi: attirare la compiacenza degli altri), contribuiscono a mantenere la disregolazione alimentare nel tempo. Il proprio fisico diventa il modo di evitare il giudizio degli altri, poiché gli occhi del mondo si posizionerebbero sul corpo divenuto oggetto di scambio, di conseguenza l’accesso al mondo interiore, particolarmente vulnerabile in tali soggetti, sarebbe in un certo qual senso evitato.
Per l’organizzazione cognitiva di tali persone, l’amore rappresenta l’unica e assoluta fonte di vita e di riconoscimento personale, infatti, proprio per questo che rappresenta l’area di maggior timore di disappunto e delusione.


La caratteristica dell’ambiente familiare, ove era determinante l’ambiguità dei sentimenti, ove gli affetti non erano esperiti chiaramente, infatti, porta ad una modalità confusa nella gestione dei rapporti affettivi.
Gli stati emotivi vengono inespressi, e talvolta reazioni depressive anche gravi rimangono nascoste a lungo, manca senso dell’umorismo e compare notevole irritabilità.
La perdita di appetito, in tali soggetti, è rara, anzi molti di essi mangiano, ma poi fanno seguire un vomito “auto indotto”, che talvolta viene percepito come “spontaneo”, al fine evitare che il cibo ingerito venga assimilato, in questi casi si è in presenza, in modo alterno, anche della bulimia.
In alcune donne si può rilevare una sensibilità di tipo paranoideo, fino ad arrivare ad episodi d’irragionevole rabbia indirizzata verso colui che queste pazienti credono, quale causa della loro mancata capacità di differenziarsi e di individualizzarsi. Per cui il loro comportamento, facilmente è contrassegnato da una “morbosità folle” indirizzata verso la dimostrazione della loro “individualità” voluta ma temuta.


Questo perché nei loro rapporti affettivi dell’età adulta, rivivono con estrema facilità l’ombra della loro famiglia, quale è stata limitatrice al raggiungimento della loro autonomia.
Si fa prevalente l’idea, dunque, di non possedere una personalità indipendente poichè spesso è molto bassa l’autostima. Mai hanno la sensazione di fare le cose perché le vogliono fare, esse vivono l’agire quale condotta basata su una reattività a vasto spettro. Questo atteggiamento è a volte camuffato dal terribile negativismo e da una sfida cocciuta. La vita di esse diventa una lotta contro la sensazione di essere sempre gestite dall’altro, sfruttate e contro la realtà di credere di non vivere la propria vita.

Mazzani Maurizio

domenica 8 maggio 2011

Cos'è una rete neurale artificiale?

L’elemento basilare del sistema nervoso degli animali è il neurone. Esso ha la capacità di ricevere e combinare segnali provenienti di altri neuroni. Il livello di tali segnali decide se il neurone resterà inibito o entrerà in conduzione consentendo l’uscita del segnale per mezzo della sua estensione detta assone. L’assone si collega per mezzo di giunzioni dette sinapsi alle ramificazioni chiamate dentriti ove il segnale si diffonde a una gran quantità di altre neuroni. E’ questo complesso di collegamenti di neuroni che viene chiamato Rete Neuronica.
Riprodurre artificialmente la capacità di questa struttura biologica è diventato oggi obiettivo sempre più ambito. I tentativi sono stati apportati sviluppando modelli matematici che ne imitano le funzioni.


Le Reti Neurali artificiali ne sono il prodotto, esse rappresentano la realtà pratica di quei modelli matematici.

E’ alquanto noto che essendo l’informatica ortodossa efficace solamente di fronte a domini strutturati (problemi risolvibili conoscendone a priori regole e procedure), allora le Reti Neurali, lavorando proprio con realtà non prestrutturata diventano oggi oggetto di sempre più interesse.

La Rete Neurale è un particolare sistema informatico che permette di simulare il funzionamento cognitivo umano, per cui ne sostituisce, in taluni casi, la sua presenza.

La previsione non strutturata è dunque l’oggetto chiave della risposta della rete neurale.
Sommariamente il loro utilizzo avviene per problemi del tipo: supporto alle decisioni, diagnosi automatica, interpretazioni dei dati, modellazione del controllo dei processi industriali ecc.

 
Ultimamente sono state effettuate ricerche sperimentali a fine d’implementare sui Reti Neurali anche alcune funzione cognitive complesse. Una è la categorizzazione oggettiva di oggetti (Giornale Italiano di Psicologia, pag. 123-152), un seconda è la simulazione cognitiva delle metafore con rete neurale tipo Back-Propagation, una terza è l’uso di rete neurale nella valutazione dei potenziali umani. Il fulcro del funzionamento della rete neurale è la capacità intrinseca di variare la propria struttura in risposta ad informazioni di addestramento apportate dall’esterno, sviluppando un modo proprio di lavorare l’input. E’ l’apprendimento che la rende utilizzabile in simulazioni di capacità umane, è propria tale caratteristica che le permette di lavorare con problematiche non prestrutturate. 


Le Reti Neurali apprendono come l’uomo attraverso esperienze accumulate. Un’altra caratteristica fondamentale è rappresentata dalla loro capacità di lavorare con dati incompleti o incerti od ancora inquinati da errori o da rumore.
Ogni rete neurale possiede una propria architettura che la rende più idonea per la risoluzione di specifici problemi.

Mazzani Maurizio