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venerdì 6 agosto 2010

Organizzazione della conoscenza di tipo Psicotico

In tale struttura troviamo che le esperienze di attaccamento potrebbero aver segnato lo svilppo della conoscenza, ad esempio esperienze di attaccamento insicuro ed evitante del candidato alla paranoia sono la polarizzazione verso una figura di attaccamento che sia a un tempo forte, sicura di se ma ostile nei riguardi della realtà e del bambino stesso. Le ripetute esperienze di rifiuto conducono il piccolo figlio a contare solo su su di sé (compulsiva fiducia su sé stessi) e contemporaneamente a riprodurre le stesse modalità egocentrica dell'unica figura di attaccamento, senza possibilità di critica. Ne risulta che il bambino non riesce a superare "l'egocentrismo cognitivo" che viene normalmente abbandonato con l'adolescenza. Pertanto anche in tale organizzazione, sembra che il rapporto interattivo madre-bambino, nel periodo infantile, abbia avuto un incongruo modo di stabilirsi. Si è anche osservato che il bambino con alta soglia di recezione agli stimoli, si sarebbe trovato in un ambiente a stimoli di bassa entità o viceversa. Pertanto si avrebbe nel primo caso, un organizzazione delle strutture di base con grave rallentamento, cioè caratterizzato da disturbi formali negativi (alogia), nel secondo, disturbo formale positivo, le modalità organizzative saranno improntate all'eccessiva confusione. Comunque in entrambe i casi, le strutture conoscitive sarebbero state caratterizzate da forti difficoltà ad integrarsi e il tentativo di organizzare il proprio disordine sarebbe stato fortemente ostacolato. I dati sull'interazione familiare confermano la difficoltà dello psicotico per via dei suoi schemi provvisori a decodificare i messaggi ad alta intensità di un ambiente iperstimolante. A questo punto l'organizzazione psicotica può "scegliere" tra due possibilità: a) lasciare che gli stimoli esterni fluiscano nel sistema che non riesce a chiudersi, provocando la perdita del controllo psicosensoriale e la confusione dissociativa; b) la chiusura rigida del sistema, per evitare l'invasione escludendo i messaggi sensoriali utilizzando una struttura limitata e stereotipata per interpretare i dati esterni, e costruire una realtà indiscutibile, cioè il delirio.

La schizofrenia e la paranoia sono due lati della stessa medaglia, poiché la chiusura o l'apertura, senza nessun vincolo organizzazionale, corrispondono a due radicalizzazzioni del funzionamento del sistema. Esse rispondono sintomatologicamente al decadimento brusco della capacità predittiva verosimile, poichè entrambe permettono di recuperare una certa quantità di tale capacità e sono quindi liberatorie rispetto all'incertezza e incomprensibilità che seguono all'invalidazione.


Ci troviamo di fronte allo scompenso del tipo "paranoide" ove lo psicotico ha un meccanismo di attenzione iperselettivo tendente ad inserire anche i minimi particolari nello stesso rigido schema. L'"overinclusion" di dati rilevanti rende impossibile il pur minimo cambiamento. Infatti l'organizzazione gerarchica possiede una forte "integrazione", una scarsa "differenziazione" e uno sviluppo unilaterale dei costrutti che porta tale sistema, di fronte a una invalidazione previsionale centrale e apparentemente ineludibile, a scegliere la strada di ignorarla, irrigidendo la struttura e privileggiando la coerenza interna a discapito della verosimiglianza delle previsioni. Dopo il periodo dell'incertezza seguito alla primitiva invalidazione, la formulazione dell'idea delirante appare come un'ancora di salvezza che restituisce predittività al sistema, e la nuova idea diventa perno organizzatore di tutta la sccessiva esperienza. L'isight del paranoico corrisponde alla creazione di un pensiero "triviale" (ora mi è tutto chiaro). Nello scompenso "non paranoide" lo psicotico appare assai distraibile da ogni stimolo ambientale e incapace a selezionare alcuni dati per lui rilevanti escludendone altri. L'attenzione si frammenta in centomila volti, centomila voci: da qui nasce l'angoscia nelle acuzie schizofreniche. Pertanto la mancata capacità di "integrazione" fra le diverse componenti che concorrono all'armonia tra i processi percettivi, emotivi e cognitivi, cioè la "struttura conoscitiva", rappresentano lo scompenso che è dovuto ad una poco sviluppata "organizzazione gerarchica" e una consistente "differenziazione". Di fronte ad un evento invalidante "tipo applicabilità", il sistema tenta di mantenere, per quanto possibile, una certa quantità predittiva, ma lo fa in modo assolutamente opposto al sistema paranoide: l'impermeabilità all'invalidazione è ottenuta attraverso la riduzione della precisione delle previsioni. La paranoia viene intesa come meccanismo di difesa dalla eventuale disgregazione del se.

Dunque a differenza della schizofrenia, abbiamo anche che il delirio nella paranoia è lucido ed egosintonico, sistematizzato e coerente nei suoi temi, vissuto con intensa partecipazione affettiva e sempre in rapporto con l'ambiente, è il sostegno stesso dell'identità. Il suo sistema predittivo è assolutamente monolotico e ogni evento riguarda il nucleo del sé; nulla è periferico e irrilevante, nulla è dovuto al caso, tutto è intenzionale e indirizzato a sé. Come dicono Lorenzini e la Sassaroli, egli è ostile perchè non "sragiona" e non sa altrimenti come farsi tornare i conti, al contrario dello schizofrenico che "sragiona", ma i conti se li fa tornare a modo suo inventando una sua realtà privata e non forzando la realtà condivisa con gli altri.


Nella schizofrenia i deliri sono più frammentari e vissuti con labile partecipazione affettiva; inoltre è presente la dissociazione mentale e le alterazioni percettive; la predittività è mutevole, vaga, indefinita e che non ha bisogno di fare i conti con la realtà, potendo tranquillamente ignorarla o modificarla a piacimento.
La definizione dei deliri è rimasta praticamente invariata attraverso i tempi. Essi vengono considerati tutt'oggi nella maggior parte dei testi di psichiatria quali "convinzioni o idee erronee, che sono tenacemente ritenute valide, che non corrispondono a quanto generalmente si crede nel contesto etnico-culturale e religioso del soggetto che le presenta, e che non si lasciano influenzare dalla critica o dal fatto che si possa presentare dell'evidenza che le contraddica e rappresentano la migliore, se non l'unica, spiegazione che il soggetto riesce a darsi su come stanno le cose". Generalmente i temi principali che contengono i deliri, sono da ricondursi a quelli con contenuto di: idee di colpa, di persecuzione, di influenzamento, di riferimento, idee sessuali e idee di esaltamento.

Mazzani Maurizio

domenica 1 agosto 2010

LA REALTA' INVENTATA... In che modo conosciamo ciò che crediamo di conoscere?

Le nostre emozioni e il nostro comportamento non sono altro che conseguenti al filtro cognitivo (il nostro punto di vista, il nostro modo di pensare) insito in ognuno di noi, con il quale valutiamo gli eventi.
La nostra attività del costruire costituisce l'obiettivo primo del vivere quotidiano. Noi da quando ci alziamo fino a quando andiamo a dormire e anche quando sogniamo, costruiamo e ricostruiamo il mondo e noi stessi. Tale interazione si compie attraverso le nostre strutture cognitive, e questo comporta che tutto ciò che avviene all'interno del nostro spazio di vita (quello che è a noi emotivamente collegato) avviene solamente perché siamo noi a deciderlo.
La vecchia psicologia sostiene che siamo determinati da particolari forze interne (pulsioni) o passivamente dall'ambiente attraverso i condizionamenti ecc., ma questo non è vero o non è tutto!
Siamo noi i costruttori della nostra realtà personale, ne consegue che siamo noi che decidiamo se un qualsiasi evento sarà o no spiacevole.

Per farvi afferrare tale concetto voglio condurvi ad una semplice riflessione:

immaginate di trovarvi in una situazione in cui siete soli nella vostra abitazione, ad un certo momento avvertite un rumore alla finestra…
potreste pensare che a causare il rumore potrebbe essere stato un ladro;
a tale costruzione (pensiero) avreste sicuramente una reazione emotiva negativa (ansia, insicurezza, ecc.)
infine avreste anche un comportamento di allerta (chiamereste la polizia, oppure vi nascondereste, ecc.).
Ora immaginate di costruire l'evento neutro in modo rilassato e tranquillo, vi accorgereste che le risposte emotivo-comportamentali vengono ribaltate…
infatti se pensaste che a causare il rumore è stato solamente il vento che ha fatto sbattere per esempio una persiana;
non avreste sicuramente emozioni negative;
e il vostro comportamento sarebbe semplicemente di andare alla finestra e verificare cosa è stato a causare il rumore.
Bene, la conclusione che ne risulta ovviamente è semplice, l'esempio dimostra proprio che noi viviamo solamente ciò che costruiamo, cioè ciò che crediamo vero, ed è quello che i nostri schemi cognitivi, preformatesi in particolar modo nell'età infantile, decidono. Un iniziale suggerimento per verificare in prima persona quanto esposto, è che quando qualcosa interno o esterno a voi vi turba, cercate di cambiare il pensiero su di esso, cioè cercate di cambiare il vostro usuale punto di vista, decentratevi (cioè abbandonate il vostro pensiero egocentrico, residuo del pensiero infantile, infatti quanto più la nostra realtà di adulti è caratterizzata dalla presenza di schemi di pensiero infantile, tanto più ci troviamo consequenzialmente inadeguati ad affrontare problematiche tipiche della nostra età, ed ecco, dunque, la nevrosi!).

Modificare la nostra conoscenza rendendola sempre più adeguata all'età in cui ci troviamo, significa pian piano abbandonare la conoscenza abituale, la quale si è dimostrata fallimentare per il proprio benessere, con una nuova conoscenza che ci permetta di avere risposte più razionali e quindi più adattive agli eventi. Una conoscenza incompleta o addirittura disfunzionale non ci permetterà mai un adattamento utile, pertanto sarà per noi difficile raggiungere i nostri obiettivi o scopi di vita… risultato chiaramente intuibile: scontentezza, infelicità ecc., ecc.


Per concludere, costruire significa semplicemente interpretare la realtà in un modo personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l'esperienza. La realtà non verrebbe quindi scoperta, come molti erroneamente credono, ma semplicemente inventata.

Il processo di adattamento all'ambiente in questa ottica, non è un effetto unidirezionale, dall'ambiente sulle strutture biologiche dell'individuo, ma bidirezionale come la moderna psicologia spiega. L'ambiente e l'individuo, nel rapporto di reciprocità, cioè di scambio, si determinano a vicenda. Ecco qui l'espressione che noi adattandoci all'ambiente in cui viviamo, non facciamo altro che costruirlo.

Mazzani Maurizio

martedì 27 luglio 2010

EGO E NON EGO

Ego e non ego, uomo o Dio, materia o spiritualità, è questo il dilemma.

L’uomo è implicitamente rappresentabile dal suo orgoglio, e da tutto ciò che gli ruota attorno.
L’identificazione, azione per eccellenza che amplia la sua dimensione egoica. Identificazione con i segmenti oggettuali, gli elementi emotivamente a egli significativi. L’aspetto del possedere che porta inevitabilmente all’essere posseduto, annullano e nello stesso tempo arricchiscono egoicamente colui che l’attua, un'antinomia antropomorfica esistenziale per eccellenza.

Porre rimedio a ciò che significa annullamento del proprio Io, un annientamento virtuale ma che è spettralmente reale, diviene cosa priva d'attrazione.

Un uomo dunque, cieco, solamente orientato al solo soddisfacimento della sua dimensione materiale. Un uomo fluttuante senza dimensione, che osserva la propria realtà da un'angolazione simile e dissimile dalla visuale oggettiva e distorta.
Una visuale reale e nello stesso tempo irreale del mondo nonché di se stesso. Egli perde quindi in ogni caso, l’umiltà patrimonio delle dottrine religiose diviene un miraggio che nessuno vuole raggiungere.

L’essere umile, liberarsi dalla tirannia del proprio Ego, l’obiettivo più auspicabile che si possa ottenere, diviene un qualcosa che non ha forma.
Un tempo era un nome che rendeva fiero, un titolo che ne nobilitava il casato, oggi è il possesso d'oggetti o di particolari prestazioni che costituiscono l’oggetto dell’identificazione che porta all’ampliamento del proprio Ego. Un’automobile, un vestito firmato da una qualche prestigiosa casa d'abbigliamento, un telefonino cellulare iper-tecnicizzato, un’abilità in un qualche campo, insomma tutto ciò che per l’individuo ha quella carica emotiva che, ad una sua sconsiderazione, egli si sente menomato nel proprio valore. L’errata interpretazione dei fatti, l’identificazione di se stesso con tutto ciò che gli appartiene, fa sicché il suo Sé svanisca nella virtualità di ciò che possiede.

L’uomo senza dimensione, l’uomo privo del Sé, l’uomo con un corpo vuoto è l’uomo d'ogni tempo. L’orgoglio, l’alterigia, la prosopopea, aggettivi la cui proprietà appartiene all’Ego, sono le non qualità dell’uomo di sempre. Abbattere l’Ego per conquistare il non Ego è vivere la propria spiritualità che è l’unica libertà raggiungibile, dunque, essenza senza materia.
Il desiderio di superiorità, obiettivo che erroneamente viene posizionato sopra le parti, è invece sotto le parti. L’accecante desiderio di emergere sull’altro, che viene espresso nella competizione, costituisce quello che volgarmente viene intesa come azione per raggiungere la superiorità, essere superiori sul proprio simile è, dunque, obiettivo dell’uomo di questa terra. Aberrante desiderio di sminuire, di annientare, di distruggere l’altro, un desiderio che ha radici primordiali (la sopravvivenza).

Il male e il bene, l’Ego e il non Ego, materia e spiritualità. Siamo soli, l’altro non esiste se non per misurare le nostre caratteristiche fisiche, psicologiche, culturali., ecc., ci inorgogliamo al costatare che una nostra caratteristica è migliore dell’altra dall’altro posseduta.
Egoismo, altruismo, dicotomia invincibile, passiamo all’amore, consideriamo l’altro come un qualcuno che ci offre l’opportunità di avvicinarci a se stessi. Comunichiamo con egli, comprendiamolo nella sua etica e nella sua morale, facciamolo nostro come è nostro lo spirito.
Lo spirituale è di tutti, è dentro di noi, rappresenta l’unico avere con cui paradossalmente non riusciamo ad identificarci.

Quando ci identifichiamo preferiamo un bell’oggetto, una bella scarpa firmata e guai se qualcuno ce la offende… il nostro Io ne sarebbe intaccato nel suo orgoglio.
Identificarci con lo spirituale, con l’amore, con il sociale è cosa per noi alquanto difficile. Il fatto è che non riusciamo a vederlo ne a sentirlo, è come se non l’avessimo e ne sapessimo cosa sia. Crediamo che solo particolari persone lo posseggano, ed invece ciò è dentro ognuno di noi, celato in taluni più in superficie e taluni più in profondità. Le difese attuate dall’individuo non sono altro che escamotage cognitivi finalizzati al mantenimento dell’immagine autoreferenziale. Tali difese si attuano ad un fine protettivo, per difendere eventuali danneggiamenti dell’immagine che ognuno di noi possiede, ma erroneamente queste difese si ipertrofizzano fino a imprigionarci in se stesse. Le convinzioni centrali su noi stessi rappresentano il bersaglio più ambito dall’altro nonché da se stessi. Il punto è essere, mentre l’identificazione con il materiale è il non essere. L’avere dunque costituisce quello che erroneamente crediamo appartenere alla nostra realtà totale, invece costituisce solamente essere la rappresentazione egoica dell'Io non spirituale. Le azioni quotidiane sono fondamentalmente fondate sull’atto del giudicare se stessi e gli altri, tale azione è per eccellenza il più tipico prodotto dell’Ego. Misurare è dunque l’aspetto promotore delle difese egoiche. La paura di incombere con l’avvicinamento all’amore, non è altro che paura di scoprirsi e rendersi vulnerabili… ma chi possiede tale paura se non solamente l’Ego. Il non Ego è privo di valutazione per cui non può incombere di fronte a nulla. Esso non ha timore, è emissione d’amore, di socialità e d’altruismo. Il vero Sé non ha riferimenti oggettuali, il materiale non è la sua di merce di scambio.

Liberarsi dalla tirannia dell'Ego è come liberarsi del proprio carceriere interiore. Evolversi psicologicamente ha, infatti, tale obiettivo.
La rigidità delle difese dell'Io rappresentano non pochi problemi per l’evoluzione personale. Ecco dunque il profilarsi della libertà dal proprio Ego, quale caratteristica basilare per un buon funzionamento psichico, nonché ingrediente basilare per far sprigionare la spiritualità che è dentro di noi.

Mazzani Maurizio

mercoledì 9 giugno 2010

Il RELATIVISMO ASSOLUTO “la contraddizione in termini per eccellenza"

Parlare di assoluto sicuramente i più ne rimarrebbero sbigottiti… direbbero ma come assoluto se l’assoluto non esiste, a meno che si intenda osare assumendo come assoluto Dio o Allah come dir si voglia con tutti i suoi vari rappresentanti profetici: Maometto, “Gesù”, ecc., ma nonostante ciò appare oggi ormai più che chiaro, che anche nell’area mistica, di assolutamente certo non c’è proprio un bel niente!
Non si può più identificare il divino con l’assoluto a meno che si abbandoni la logica a favore della fede religiosa, ma sappiamo che di fedi religiose ce ne sono tante, per cui anche in questo caso, appare impossibile assumerne una come assoluta, quando siamo consapevoli della presenza di altre, le quali potrebbero essere altrettanto valide.
Ma spesso ci volgiamo al mondo reale con la stessa fede irrazionale con cui ci dirigiamo al divino. Per cui poniamo per necessità, il più delle volte inconsapevolmente quindi senza una minima riflessione, come assoluto dei riferimenti che oggettivamente non lo sono.

Le norme culturali (la sovrastruttura: per es. la cultura occidentale od orientale o araba o ancora le culture primitive tipo tribali presenti in alcune popolazioni dell'Africa centrale o presso gli ultimi aborigeni del continente australe; ecc.) ne sono l’esempio, e l’etica e la morale che sono all’interno, ne costituiscono i riferimenti comportamentali per eccellenza, che erroneamente sono creduti assoluti.

Ognuno di noi possiede all’interno del suo sistema pensante, la sua etica e la sua morale che non sono altro che la sottocultura partorita dalla sovrastruttura culturale. Ed è proprio ciò che vige nella maggior parte dei casi, ed in maniera assolutamente irremovibile, come guida del nostro comportamento.
Le rigidità assolutizzanti e preconcette ne sono l’esempio. Esse rappresentano i punti di riferimento del sistema cognitivo, i concetti fondamentali, con i quali valutiamo il mondo e noi stessi. Sono proprio tali concetti che costituiscono ciò che di “assoluto” vige nella nostra struttura mentale.

Assolutismo/relativismo dicotomia impossibile se non solamente accademica, per cui cercherò di farvi giungere alla consapevolezza dell'inesistenza di certezza assoluta, ma solamente relativa che a nostro “piacimento” consideriamo assoluta.

Tale consapevolezza sarà di vitale importanza, poiché è proprio sul relativo che noi poniamo come assoluto, che si basano gran parte delle nostre difficoltà nell’affrontare la realtà quotidiana: l’origine dei nostri nevroticismi, l’incapacità di spostarsi facilmente, potendo così costruire il mondo e noi stessi da un diverso orizzonte, da una differente angolazione, un'angolazione dissimile da quella che s'impone coattivamente al nostro vivere.
La dimostrazione è semplice basta pensare, come già accennato, alle differenti sovrastrutture culturali ancora esistenti sul nostro pianeta. Esse possiedono come riferimenti assoluti elementi diversi, ed è chiaro che ogni cultura è diversa da un'altra nella misura in cui questi elementi relativi vengono assunti come assoluti.
Un esempio in tema, è il concetto di normalità, la quale è differente nelle diverse culture. Essa significa, infatti, solamente essere nella norma, cioè appartenere a quell'insieme d'individui che rappresentando la stragrande maggioranza, costituiscono il riferimento normativo, cioè il criterio socio culturale guida, tale da poter differenziare altri che hanno caratteristiche diverse, cioè anormali (fuori della norma).
Pensate ad esempio alla cultura araba dove avere due o più mogli è largamente accettato, quando nella nostra cultura ciò non solo non è normale, ma anche punito dalla legge. O ancora la circoncisione dei bambini ebrei, che rappresenta l'iniziazione religiosa, elemento importantissimo per quella gente, ma che è da noi occidentali invece impraticata, per cui farlo sarebbe considerato non normale. O per estremo pensiamo al matriarcato presente in una cultura tribale dell'Africa centrale, invece del patriarcato presente nelle restantanti culture. Infine, altro esempio, il far calzare delle piccole scarpe per anni alle bambine cinesi, per impedire che il loro piede cresca più di tanto, poiché in quella cultura avere le donne un piccolo piede rappresenta un aspetto di gran grazia, per cui esse, con sofferenza, sopportano tale costrizione culturale come una normalità, mentre per noi sarebbe pura follia!
Pertanto quello che deve essere ben chiaro, ed aver raggiunto la vostra consapevolezza, è che l'unico assoluto possibile è la certezza dell'inesistenza di certezza.

Il relativismo assoluto che è una contraddizione in termini, non è altro che una mera invenzione dell'uomo per ottemperare al suo bisogno di sicurezza. L'unica realtà che ci riguarda è il relativismo, ed in particolar modo, essendo ciò che c'interessa, il relativismo quindi dei nostri fatti mentali, delle costruzioni su noi stessi e sul mondo, per cui ogni nostro comportamento, ogni nostro pensiero, ogni emozione non è altro che il derivato della nostra teoria di come i fatti avvengono. Tale teoria è la risultante degli scambi tra noi e il mondo, per cui rappresenta la sottonormativa alla quale ci atteniamo quando ci comportiamo. Assumere come assolutamente oggettiva una semplice interpretazione soggettiva degli eventi psicologici a noi collegati è la premessa all'infelicità.


Ora facciamo una riflessione circa il relativismo dei fatti mentali, per far questo, basta semplicemente pensare ad una qualsiasi vostra situazione passata, dove vi siete comportati aggressivamente con rabbia per via di un qualcosa che in quel momento avete giudicato importante, a tal punto da sentirvi feriti nel vostro amor proprio (ferita egoica), ma che poi dopo un po' di tempo, ripensandoci sopra, facilmente vi è accaduto di dirvi, ma che stupido che sono stato ad arrabbiarmi in quel modo, in fin dei conti quella cosa che avevo giudicato così importante non lo era affatto, e per di più c'è andata di mezzo anche mia... ecc., ecc.

Il punto è proprio questo: per quanto riguarda il relativismo delle differenti normative sovra-culturali, sono convinto che sia già patrimonio di tutti voi, per cui credo che non ci sia altro da aggiungere; mentre comprendere consapevolmente il relativismo dei fatti mentali, sia vostri che altrui merita ulteriore attenzione. Per cui riflettendo sulle vostre costruzioni sul mondo e su voi stessi, potete notare che esse risultano facilmente assolute in un momento, per poi apparire estremamente relative solo dopo poche ore al semplice riesame, come spiegato sopra, e questo quando riuscite a spostare il vostro punto di vista come ho già accennato.

Dunque, tutto è relativo come ovviamente tutte le costruzioni sul mondo e su voi stessi, per cui quando state nevroticamente male perché avete interpretato un fatto in un certo modo ricordatevi che è sempre, è sempre una costruzione relativa dell’evento che in quel momento giudicate assolutamente spiacevole, ma che potreste rivedere e rendere la costruzione più consona alla realtà, pertanto più oggettiva.


Mazzani Maurizio

CRESCITA MENTALE: acquisizione di conoscenza, invalidazione, incremento conoscitivo e valore dello stress

Il comportamento, da individuo ad individuo, e nello stesso individuo, da momento a momento, è differente; crediamo e pensiamo cose diverse, abbiamo mentalità diverse, cioè prevediamo cose diverse. Il progressivo cambiamento di conoscenza ha luogo nel momento d’incontro tra la conoscenza posseduta, che crea aspettative e la verifica di queste con l’esperienza. In tale momento avviene la validazione e l’invalidazione che costituiscono il dinamismo centrale dell'acquisizione di conoscenza.
L’invalidazione, in particolare rappresenta, in base ai processi dell'"assimilazione-accomo
damento", l'occasione d’arricchimento e di sviluppo delle capacità previsionali. Il fenomeno è spiegato dal fatto che la crescita mentale, come detto, avviene per integrazione e per sostituzione, e non soltanto per aggiunta di nuove informazioni. Per meglio capire, immaginate di versare dei colori in un bicchiere pieno d'acqua (tanti colori quante sono le esperienze fatte a un dato momento), se guardate nel bicchiere noterete che il prodotto finale non è un insieme di colori distinti, ma un solo colore quale risultante della miscelazione di tutti gli altri (ogni colore precedente condiziona il nuovo)... la conoscenza segue lo stesso iter, la risultante conoscitiva, a un dato momento, è e sarà sempre l'integrazione dei significati (i colori) dati a ogni singola esperinza che avete vissuto.

L'incremento conoscitivo ci consente una maggiore disponibilità di soluzioni (abilità al problem solving), come anche una maggiore malleabilità al decentramento dalla propria visuale soggettiva, che è elemento fondamentale per un buon funzionamento psichico.
E' il sistema di conoscenza dell’individuo, le sue convinzioni centrali, che decidono il livello di vulnerabilità posseduto, e le reazioni psicofisiologiche che saranno messe in atto di fronte ad un potenziale agente di stress.
Insuccessi, rifiuti, perdite, è impossibile evitarli, ma dal punto di vista psicologico "non è importante l'evento in sé" quanto il modo con cui si reagisce, cioè la propria reazione emozionale. "Non è importante ciò che succede", ma il modo come lo prendiamo rappresenta il fondamento della salute. A riguardo, ricordiamo per esempio, affermazioni di grandi autori anche non appartenenti all'area cognitiva come: C. Du Bois, secondo il quale le idee scorrette producono disagio psicologico; A. Adler, con la sua contrapposizione tra "intelligenza privata" e "senso comune"; Kant, il quale riteneva che le malattie mentali si manifestano quando una persona non riesce a correggere il suo "senso privato" con il "senso comune"; e persino in Marco Aurelio: "se ti è data sofferenza da qualche cosa esterna, non è questa cosa che ti disturba, ma il giudizio su di essa, ed è in tuo potere eliminare questo giudizio”; ancora in Epitteto, "gli uomini non sono mossi dalle cose, ma dalle visioni che di esse hanno".

Il riferimento agli schemi cognitivi-emozionali (strutture di significato), rappresenta il fulcro dell'agire terapeutico. Tali schemi, che ciascuno sviluppa durante tutta la sua vita, si ancorano primariamente durante i primi anni, al contatto col mondo esterno e con le esperienze interne. Essi sono una specie di "filtro" attraverso il quale osserviamo il mondo e noi stessi, in un modo che è specifico per ciascuno. Definiscono, inoltre, da un lato, le aspettative su ogni contesto e i calcoli possibili da compiere, dall'altro le limitazioni conoscitive tipiche all'individuo al quale lo schema appartiene.
Pare accertato, che il modello personale con il quale si costruisce la realtà, sia di indiscutibile centralità, per cui è bene fare attenzione alla struttura cognitiva tipica dell'individuo conoscente, quando si parla di valore stress.

Le sfaccettature del pensare, dunque, condizionano la propria esistenza, e se queste sono prettamente irrazionali comportano distorsioni nella costruzione della realtà. La condotta della vita si svolge in coseguenza al tipo di dinamica che caratterizza il processo interpretativo. Un processo tipicamente diverso tra individuo ed individuo di elaborare le informazioni.
E' la visuale conoscitiva, propria alla nostra mente, di fatti, che decide ciò che viviamo. Se questa, in relativo a noi e al nostro benessere, si mostra disadattiva, poco efficace a guidarci nel mondo, ecco che le deviazioni del pensiero mostrano le più svariate bizzarrie interpretative: dalla nevrosi alla psicosi.
La corretta funzionalità del pensiero costituisce la valenza centrale per il buon adattamento e per l'ottenimento di ciò che ambiamo.
Cosa interessante, è che l'attenzione alla modalità del conoscere la ritroviamo addirittura in alcuni importanti aspetti del buddhismo.
Tocco e fuggo subito, l'esigenza della "liberazione" intrinseca nella religione buddhista, viene per la prima volta sottolineata in termini di pensiero logico e razionale e non da una rivelazione mistica. La "liberazione" in questa dottrina viene chiamata "via mediana" perchè equidistante sia dall'ascetismo fanatico sia dall'edonismo assoluto.
Per meglio esplicare ciò, cito alcuni versi del testo canonico buddista:

“E' bene che si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace; il pensiero domato è portatore di felicità”.
“Custodisca l'uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace; il pensiero ben guardato porta felicità”.
“Per colui il cui pensiero è instabile, che non conosce la "Buona Legge", la cui calma mentale è turbata, per costui la conoscenza non è completa”.
“Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa (all'uomo stesso) il (suo) pensiero falsamente diretto”.

(Il Buddha attraverso il Dhamma-Pada (I versetti della legge; testo canonico buddhista), testualmente da "Citta-Vagga" (Il pensiero): 36esima, 37esima, 38esima e 42esima strofa)

La sorpresa non finisce qui, anche in testi induisti, nel famoso capitolo “il Bhagavad Guita” della vasta opera Hindù Mahabarata, troviamo riferimenti alla correzione del pensiero falsamente diretto.

E' il sistema di conoscenza che è oggetto di conoscenza, l'incremento della meta-cognizione, della capacità riflessiva è, difatti, l'elemento centrale dell'agire terapeutico.

In conclusione, cìò che percepiamo è relativo al nostro sistema di conoscenza cognitivo-emotivo quale risultante delle esprienze vissute, ed è questo, quindi, che decide il valore e il significato che si da alla vita e alle componenti che la caratterizzano.
In pratica, se un'esperienza "dannosa" la interpretiamo come catastrofica, ecco che il cuore, il sistema immunitario e il sistema digerente ecc. sono messi a grave rischio. Se la cosa è osservata sì come negativa, ma non tanto spaventosa da non poterla assorbire, la risposta dell'organismo è meno invasiva. Pertanto, l'attività biochimica cerebrale aumenta solo quel poco da permettere una risposta efficace, senza ridurci all'impotenza.
Per conoscere se certi eventi della vita correlano con manifestazioni patologiche conclamate o con un quadro di disagio psichico, dunque, principalmente bisogna vedere in che modo gli individui valutano e affrontano le loro esperienze.

Mazzani Maurizio

martedì 8 giugno 2010

Che cos'è l'ottimismo? si può diventar ottimisti? come si fa in tal caso?

Dietro questa rassegna di domande c’è sicuramente la voglia di capire cosa sia, ma soprattutto sapere se sia realmente apprendibile, o se devono rassegnarsi coloro che non possiedono tale qualità.
Vi rassicuro subito, l’ottimismo non è un pregio innato, bensì un modo d’essere che può essere appreso.
Interessante… vero!
Esso costituisce una particolare modalità di rapportarsi con se stessi, e può costituire la base per una vita più serena.

Perché asserisco ciò?

Semplice, poiché esso essendo un particolare stile di dialogo interiore con il quale si affrontano le avversità, ne consegue che da esso dipende il nostro benessere.
Tale linguaggio interiore rappresenta “la guida personale” che ognuno si forma dal primario linguaggio egocentrico, caratteristico del periodo infantile (linguaggio che il bambino piccolo usa anche a voce alta tra sé e sé, in special modo durante il gioco).
Esso è l’insieme sia dei pensieri consapevoli sia di quelli automatici, quest’ultimi sono quelli che hanno la caratteristica di by-passare l’intelligenza razionale, quindi, il controllo volontario (in un certo qual senso costituiscono il famoso inconscio freudiano).

E’ attraverso questo parlare tra sé e sé che nell’età adulta si effettuano le funzioni di controllo. Tale linguaggio è il pensare tra se stesso, quello che avviene silenziosamente per sommi capi, e costituisce la stabilizzazione e la guida del nostro comportamento. Tramite esso noi monitoriamo le nostre azioni, le valutiamo autoerogandoci premi e punizioni, esso non è altro che il nostro stile esplicativo con il quale ci spieghiamo fallimenti e successi.

Avere uno stile ottimistico ci permette di vivere le avversità meno pesantemente. Tale stile, infatti, è contrassegnato da una modalità costruttiva positiva di affrontare la vita; ciò porta il più delle volte ad evitare di penalizzare se stessi quando ci si trova di fronte ai fallimenti. Ogni spiegazione è circoscritta al semplice evento spiacevole.

Quello che importante comprendere è che lo stile esplicativo pessimista e ottimista non si differenziano soltanto dalle diversità del contenuto del dialogo, ma anche, ed è la cosa più importante, dalla modalità con la quale si attribuiscono le cause.

I fallimenti hanno il potere di farci sentire impotenti, l’impotenza che ne risulta è chiaramente appresa, e produce generalmente soltanto sintomi depressivi temporanei, a meno che possediamo uno stile esplicativo pessimistico. In tal caso un elementare inconveniente, una semplice sconfitta, può farci sprofondare in una depressione grave.
La personalizzazione, la pervasività e la permanenza sono gli ingredienti che caratterizzano lo stile esplicativo pessimista, ma acquisendo una nuova conoscenza essi possono essere moderati o addirittura cambiati.
Il modo di rapportarsi al reale con tale stile comporta non pochi problemi. Vediamo che il pessimista attribuisce (personalizza) i motivi dei suoi potenziali fallimenti a se stesso ad esempio: (“è causa mia se ho fallito”); generalizza globalmente (“giacché non sono stato capace a parlare opportunamente in quella circostanza, non valgo nulla”); ed infine lo proietta permanentemente nel tempo (“tale errore lo subirò tutta la vita”). Ne consegue che ad una tal persona, è facile dedurlo, basta un semplice fallimento nel lavoro o negli affetti per cadere in depressione.

Appare, dunque, razionale che tale aspetto negativo con il quale ci rapportiamo al reale, sia preso di mira per essere cambiato. Il punto interessante è proprio qui: è il tipo di stile esplicativo che decide se saremo o no persone felici.

Ma non preoccupatevi! Con un opportuno training di acquisizione di nuova conoscenza si può apprendere quello ottimista, come qualsiasi altra abilità che possa essere appresa attraverso un semplice allenamento.
Per meglio spiegare lo stile esplicativo ottimista, aggiungo inoltre, che l’atteggiamento positivo nei confronti della vita che lo caratterizza, è volto verso un ampio raggio d’azione. Ma badate bene, con atteggiamento positivo non intendo, come alcune correnti psicologiche affermano, il pensiero che delinea i banali proponimenti da ripetersi innumerevoli volte, tipo: “ho fiducia nel mio successo e nelle mie qualità”; “voglio amar me stesso e gli altri”; “io so di farcela”, “mi accetto come sono”; “ valgo tanto da raggiungere qualsiasi obiettivo”; ecc., ecc., ma, rappresenta l’abilità di non condurre il proprio pensiero contro se stessi producendo danno, bensì a nostro favore, producendo benessere. Il suo raggiungimento si può ottenere attraverso un training cognitivo orientato all’autoconoscenza e alla correzione del pensiero irrazionale e falsamente diretto, in modo da acquisire l’atteggiamento positivo. Riuscendo a cambiare la modalità errata, quindi svantaggiosa con cui pensiamo ai nostri problemi, (un problem solving costruttivo), consegue così l’affievolimento, per esempio la disforia seguita ad una qualsiasi avversità, che per estremo può essere, se razionalmente costruita, addirittura tramutare in euforia.
Si possediamo questo potere… noi siamo ciò che pensiamo!
Non esistono energie interne talmente forti, come asseriva la psicoanalisi, o condizionamenti talmente efficaci, come asserisce il comportamentismo americano, tali da decidere quello che siamo!

Mazzani Maurizio

La percezione della propria autoefficacia quanto influisce sulla capacità di far fronte allo stress?

Il senso d’autoefficia è un particolare atteggiamento mentale positivo verso se stessi. Tale atteggiamento nella pratica terapeutica è visto come un obiettivo da raggiungere. Stimolare nel soggetto la messa in prova delle proprie capacità, esperire le situazioni di cui si è portati ad esagerarne le difficoltà e sulle quali si ritene di non possedere le abilità sufficienti per affrontarli, costituisce un passo necessario per ripristinare un senso d’efficacia perso o per acquisirne maggiore. Affrontare le situazioni che creano ansia in modo sistematico, cioè avendo l’accortezza di ponderare dettagliatamente le proprie forze spingendoci ogni volta solamente un poco in più, affinché la probabilità di successo sia molto alta, rappresenta la pratica terapeutica per acquisire sicurezza e incrementare la propria percezione d’autoefficacia.

Agire sistematicamente sulle proprie paure, spesso irrazionali, attraverso la pratica esperenziale, consente d’incrementare la consapevolezza sulla propria personale efficacia nella gestione delle problematiche di vita.

Generalmente nelle situazioni nevrotiche, in cui il proprio equilibrio psicologico è compromesso e i nostri pensieri sono caratterizzati da una valenza autosvalutante, ci si trova irrazionalmente nella condizione di sottovalutare le proprie abilità di fronteggiamento delle avversità e dello stress che ne consegue.

Gli Atteggiamenti negativi del tipo impotenza e disperazione, sono per esempio, alla base della convinzione di essere inefficaci nel gestire le avversità insite nella vita di ciascuno di noi.
E’ palesemente dimostrato il fatto che la convinzione che si ha circa la proprie capacità possiede una grande effetto proprio su quest’ultime.

Brevemente per modificare la percezione della propria abilità di fronteggiamento, è principalmente opportuno, dunque, che vi convinciate di confrontarvi con determinati compiti, secondariamente di cimentarvi con attività di cui siete portati ad esagerarne le difficoltà. Per far ciò dovreste cercare di razionalizzare e autoincoraggiarvi, a mettervi anche a confronto con gli altri, poiché ciò rappresenta l'opportunità per avere dei modelli che riescano laddove voi non riuscite, dandovi così una spinta ad aver successo, senza però, ovviamente, cadere nella competizione irrazionale che ha la sua radice esclusivamente nella neurosi.


Per cui la cosa più tangibile rimane come sempre la pratica. Infatti è "attraverso l'esperienza del successo" che potreste nutrire più di ogni altra cosa il senso dell'efficacia personale.

E' noto da secoli che "nulla conduce al successo come il successo stesso".

La vostra presente condizione di fiducia in voi stessi e di equilibrio non è il risultato di ciò che avete imparato, ma di ciò che avete "sperimentato". L'esperienza pratica della vita è maestra dura ed impietosa. Gettate un uomo nell'acqua profonda e l'esperienza gli insegnerà a nuotare, ma la stessa esperienza può far affogare un altro uomo.

E’ proprio l'esperienza, quindi, che promuove il cambiamento, che in questo caso è costituito dall’aumento della fiducia in sé stessi.

Il punto è semplicemente incoraggiarvi a mettervi alla prova, ma con un piano di sviluppo opportuno, per far sicchè si evitino conseguenze di una pratica avventata. Dovete pianificarvi il raggiungimento di mete con crescenti difficoltà per evitare tassativamente il rischio di incombere. Ciò sarebbe particolarmente nocivo perché confermerebbe la vostra errata convinzione di non essere abili nel gestire la vostra realtà.

Le concezioni sulla validità dell’incremento del senso d’autoefficacia, pongono il loro fulcro nella forza delle motivazioni personali e nell'importanza di poter influire sul proprio destino. L'esser convinti di poter riuscire, costituisce, quando sono presenti le stesse competenze, un vantaggio al raggiungimento dell'obiettivo prefissato, quindi maggior benessere. E’ proprio la consapevolezza di poter agire con efficacia al raggiungimento dei nostri scopi che pone la pietra angolare del benessere psicofisico. Il raggiungimento dello scopo primario è il sano mantenimento della nostra unità psicofisica. Esso costituisce il fulcro sul quali ruotano tutti gli altri scopi di vita presenti nella nostra realtà motivazionale. Il soddisfacimento di bisogni fondamentali quali amore e attaccamento, e complementari come successo, potere. riconoscimento, ecc., ecc. costituiscono il motore del nostro comportamento nella visuale mediana della dicotomia libertà determinismo. Noi siamo, in concomitanza a fattori biologici ereditari e a fattori ambientali e sociali artefici del nostro destino.

L'autoefficacia percepita in realtà significa come la mente si ponga di fronte ad un problema da risolvere o ad un obiettivo da raggiungere. L'autoefficacia percepita corrisponde, dunque, al senso di personale forza che proviene dalla consapevolezza di essere abili ad affrontare una determinata situazione, ciò deriva dal modo di percepire sé stessi e di porsi in rapporto con la realtà.

Nella terapia
, infatti, si usa proprio l'esperienza per promuovere fiducia in sé stessi, quindi la persona deve essere, continuamente incoraggiata a mettersi alla prova, ma con un piano di sviluppo opportuno, per far si che si evitino conseguenze di una pratica avventata. Si dovrà concordare, quindi, con il paziente, il raggiungimento di mete con crescenti difficoltà.

Mazzani Maurizio

PARLIAMO ANCORA DI STRESS... Cos’è e perché viene?

Immaginate di trovarvi seduti ad un tavolo con degli amici, quando ad un certo punto uno di voi racconta delle sue ultime vicende lavorative.
Egli dice:
-in questi ultimi giorni credo di aver lavorato troppo… mi sento molto stressato!
-ho cercato di comprendere le radici di questo stress ma non ci sono riuscito,
-la cosa strana, è che il lavoro che ho fatto mi ha gratificato molto, ed ho deciso io stesso di dedicarmici con così tanto impegno, ma… non capisco proprio il motivo dei miei sintomi.
-dovete sapere che la sera ho difficoltà ad addormentarmi e faccio fatica a concentrarmi.
A questo racconto ciascuno dei presenti è portato a riflettere su tali parole e cerca di offrire una propria opinione sull’evento.

Fate ora anche voi la stessa cosa, esprimete tra voi stessi un'idea sull’accaduto, cercate di spiegare, in base alle vostre conoscenze, la causa dell’insorgenza dello stress nel protagonista del racconto, poi confrontatela con la mia spiegazione.
Formulate e poi riprendete a leggere, ………………………………………………….
Appare chiaro che i più potrebbero rispondere che la causa dello stress sia dovuta all’eccessivo lavoro, altri alla eventuale gestione errata di quest'ultimo, altri ancora avendo forse più cognizione, potrebbero ricondurne la causa al rapporto che il protagonista ha con il proprio lavoro, alle sue costruzioni, interpretazioni cognitive che lo riguardano, altri invece con più semplicità potrebbero supporre che probabilmente il soggetto era già ad un elevato stato di stress, con ciò è bastato un momento di intenso lavoro per farlo cadere.
Bene, posso certamente affermare che le risposte sono più meno tutte esatte.
Le radici dello stress, al contrario di come spesso si è portati a supporre, ha un origine multifattoriale e non unifattoriale.

Lo stress dipende dunque, da vari elementi che accavallandosi, sommandosi l’uno con l’altro, producono ciò che comunemente viene chiamato esaurimento nervoso.

Quanti di voi si sono trovati a rispondere o a sentirsi rispondere, alla domanda: come stai -- la risposta mi sento un po’ esaurito, sicuramente molti. Infatti arrivare a sentirsi stressati è oggi alquanto facile.
Che significa essere stressati?
I sintomi più comuni conseguenti ad un affaticamento nervoso, possono essere ricondotti a:
- ipotonia muscolare o senso di stanchezza;
- sonno intermittente;
- difficoltà all'addormentamento
- difficoltà di concentrazione nei compiti mentali;
- facile irritabilità, ecc.

Il sistema nervoso, spiego, è come qualunque muscolo del corpo, il quale dopo un eccessivo sforzo, sia dovuto a molto lavoro fisico sia ad un uso errato dello stesso, è stanco “esaurito” ormai privo di energia e pieno di sostanze tossiche che con il tempo il corpo deve riassorbire. Ciò significa che l’organismo è impegnato a rigenerare le energie dissipate, quindi, come sappiamo, deve riposarsi.

Nel sistema nervoso accade più o meno la stessa cosa, esso durante il suo lavoro produce ormoni i quali devono essere riassorbiti. Il guaio nasce quando dopo un eccessivo e prolungato lavoro del sistema nervoso, si ha nel circolo sanguigno eccessive quantità di neurotrasmettitori, i quali devono essere riassorbiti con altro lavoro… ed ecco qui la stanchezza caratteristica dovuta allo stress. Si perché la loro eccessiva presenza costituisce tossicità per lo stesso organismo. L’adrenalina per esempio, tipico ormone prodotto dalle ghiandole surrenali a seguito di eventi allertanti, proccupanti, cioè l’ormone che predispone alla lotta e alla fuga, se è presente in quantità elevate diventa tossico e disorganizzante per tutto l’organismo. Infatti, se per sfortunati contesti di vita proviamo ripetutamente emozioni negative che ne stimolano la produzione, vediamo che l’organismo con il passare del tempo si debilita perdendo capacità di prontezza fisica e di attenzione mentale, i sintomi del protagonista della storia.

Si, cari lettori, una delle cause più comuni di disattenzione sul lavoro o comunque di scarsa attenzione durante l’esecuzione di compiti in generale, è dovuta proprio allo stress e in particolare alla sovraproduzione di sostanze neurotrasmettitrici.

A tali parole comunque, se siete soggetti a stress non spaventatevi, poiché esistono innumerevoli tecniche per combatterlo. Le più comuni sono:
-le Tecniche di Rilassamento che agiscono direttamente sul corpo;
-la Desensibilizzazione Sistematica che attraverso il rilassamento e le immagini mentali agisce sia a livello corporeo sia a livello cognitivo.
Le prime rappresentano un vero e proprio training di apprendimento al rilassamento, utile a far fronte alla risultante corporea dell'ansia (asma, palpitazioni, attacchi di panico, capogiri da stress, insonnia, nausea,ecc.) .
La seconda, dopo aver ottenuto uno stato di quiete corporea attraverso una qualsiasi tencnica di rilassamento, il soggetto viene invitato ad immaginare delle situazioni ansiogene appartenenti alla propria vita. Il razionale della tecnica sta nel fatto che se c'è rilassamento non può coesistere ansia, per via della loro natura antagonista. Le immagini hanno il fine di far abituare il soggetto ad affrontare le proprie situazioni temute.
Tale apprendimento traslato poi nella propria quotidianità, permette così di affrontare le medesime situazioni già vissute a livello immaginativo, che normalmente in vivo venivano evitate perché ritenute troppo ansiogene. Questo risultato lo si ottiene come conseguenza del cambiamento cognitivo verso gli eventi temuti.
Altre tecniche invece lavorano specificatamente sul sistema cognitivo della persona, sul suo modo di pensare, al fine di scoprirne le componenti irrazionali e contraddittorie che indurrebbero ansia. L’obiettivo di queste tecniche terapeutiche, è specificatamente quello di produrre un modo più razionale di valutare ed interpretare gli eventi di vita, un modo più funzionale, quindi più adattivo.

Un suggerimento per non cadere facilmente nelle malattie tipicamente prodotte dall’eccessivo stress, è quello di valutare gli eventi di vita con più malleabilità possibile, arrabbiatevi di meno… non serve a nulla, non irrigiditevi di fronte alle invalidazioni della vostre convinzioni, perseverando così negli errori al fine di conservare la vostra immagine di persona infallibile!

Prendete atto della realtà, essa in continuazione offre segnali utili per cambiare la strada che in quel momento si sta dimostrando fallimentare, sforzatevi a non diventare ottusi autoinvalidandovi da soli!
Cercate di non diventare ansiosi con troppa facilità di fronte alle cose che ritenete difficili da affrontare… pensate alla peggiore cosa che potrebbe accadere se doveste incombere di fronte all'evento negativo. Dopo tale valutazione, facilmente vi renderete conto che automaticamente siete portati ad esagerare, a catastrofizzare sulle conseguenze. L'amplificazione del pericolo, è purtroppo spesso la caratteristica del pensiero delle persone ansiose che hanno, di fatto, con un tasso di insicurezza elevato.

Infine, non dovreste mai dimenticare, che un buon funzionamento mentale è possibile solo se esiste una consistente libertà dalla tirannia del proprio Ego!

L'ansia è sempre conseguenza di previsioni, in particolar modo su se stessi, che si stanno dimostrando errate, e le difese di coerenza egoica ne sono le artefici.
La coerenza di significato personale (le idee su se stessi, ecc.), anche se disfunzionale, rappresentando l'orientamento della persona, è portata a resistere al cambiamento, e pertanto, pur di mantenere una sorta di coerenza conoscitiva, resiste spazzando via ogni buon senso!

Mazzani Maurizio

lunedì 7 giugno 2010

Personalità e stili d’affronto dello stress (il coping)

Il termine coping è un verbo inglese, che si riferisce, in linea generale, alle strategie comportamentali e cognitive messe in atto per fronteggiare un evento di vita negativo e lo stress che da esso deriva. I momenti che lo caratterizzano si distinguono in due fasi propedeutiche e il coping vero e proprio, e sono: 1- valutazione della minaccia alla coerenza di sé, in pratica all'immagine che possediamo di noi stessi; 2- elaborazione di strategie cognitive per affrontare l'evento stressante di pericolo. 3- il coping vero e proprio, vale a dire la fase esecutiva con la messa in atto di tali strategie.

E’ importante notare, che il significato attribuito all’evento stress è di vitale importanza per la “scelta” delle strategie di coping che saranno messe in atto. Il rapporto tra coping ed eventi stressanti è di natura tipicamente processuale. Sembra che ogni individuo processi cognitivamente la situazione stimolo, valutandone il potenziale significato, la propria capacità di affrontarlo, il senso di controllo della situazione e, infine, le eventuali conseguenze supposte.

Esistono differenti stili di coping: a- il coping orientato al compito, le cui strategie cognitive e comportamentali si orientano alla diminuzione dello stress attraverso la risoluzione del problema, e questo riorganizzando e ristrutturando cognitivamente le parti che lo compongono o semplicemente cercando di minimizzarne gli effetti nocivi. Le tecniche usate sono: la raccolta d’informazioni, il problem solving, il training volto all'incremento d’abilità interpersonali, mutamenti di stile di vita, sforzi volti a cambiare l'ambiente circostante, ecc. Tali tecniche sono le classiche modalità d'intervento della terapia cognitivo/comportamentale, infatti, lo sviluppo del coping del paziente, è uno degli obiettivi prioritari di tale approccio; b- il coping orientato all'emozione. Sono strategie verso il sé, che hanno il fine di cercare di dominare le reazioni emotive conseguenti agli stressor ambientali. Sono: il cercare il significato degli stress vissuti, esprimere apertamente le proprie emozioni, il training di rilassamento, il sognare ad occhi aperti, il rimuginare, il negare la realtà o la severità di un evento, ecc. c- il coping d’evitamento. Le cui strategie sono centrate al sottrarsi dalle situazioni stressanti, sia impegnandosi in compiti sostitutivi di distrazione (pulire la casa, guardare la televisione, uscire per fare delle cose, ecc.), sia cercando il contatto con le persone diversivo sociale.

Da studi fatti sulle tre dimensioni di coping è risultato importante la loro relazione con la psicopatologia o con la loro reale afficacia nel risolvere le problematiche stressanti. Da queste ricerche è emerso che la strategia di coping orientata all'emozione sia correlata alla depressione e all'ansia e a sintomi psicosomatici. Il coping orientato al compito si correla negativamente con le manifestazioni psicopatologiche, pertanto appare essere in generale quello più funzionale. Infine, gli stili di coping orientati all'evitamento hanno il fine di ottenere velocemente la riduzione dell'ansia, dando così veloce beneficio, ma l'uso di tali comportamenti evitanti, costituiscono, spesso, soluzione peggiore, poiché instaurano condizionamenti rinforzati dalla stessa diminuzione dell'ansia, cioè creano un circolo vizioso evitante, il tutto senza minimamente risolvere il problema iniziale. L'assunto di tale strategia sta nel fatto che, essendo l'ansia ritenuta, in parte, come l'aspettativa di conseguenze penose, l'evitamento produce sollievo proprio per la cessazione dello stato spiacevole, ma nello stesso tempo evita l'abituazione allo stimolo ansiogeno e l'impedimento della formazione di soluzioni cognitive più adattive. E' opportuno dire, che le strategie di coping sono tutte utili nel gestire lo stress, quello che è importante rilevare, è che esse devono essere utilizzate in modo sì scopistico, in pratica con l'obiettivo di raggiungere il fine prefissato, ma nello stesso tempo, tali azioni di coping, devono avere la bontà della logica. Quest’ultima affermazione ha il fine di sottolineare, che un individuo deve avere necessariamente consapevolezza delle strategie cognitive/comportamentali che utilizza per affrontare un dato problema, al fine d’essere pronto a rispondere agli eventuali feeb-back negativi. La modalità d’eseguire strategie di coping, per adattarsi all’evento stress, sono suddivise, dunque, in strategie funzionali, strategie meno funzionali e in strategie che non risolvono il problema/stress anzi, cronicizzano il problema-stress. In sintesi si afferma che le modalità d’affronto dello stress caratterizzate da una partecipazione più attiva, rispetto a quelle caratterizzate da una maggiore passività, risultano essere più efficaci nel fronteggiamento dello stress e al dolore ad esso collegato.

Mazzani Maurizio

domenica 6 giugno 2010

IL PREGIUDIZIO... un bisogno mascherato di anticipare l'altro attraverso categorie pre-costituite... solo utili a gestre l'ansia del non prevedibile!

Il fulcro della nuova psicologia è la natura costruttiva dei nostri schemi cognitivi, dei nostri pensieri, cioè di ciò che erroneamente crediamo vero. La realtà è da ciascuno di noi inventata, non esiste una corrispondenza esatta tra le nostre rappresentazioni e il mondo… essa può essere solo relativa. Esitono, di fatto, tanti mondi quanti sono gli abitanti del pianeta, nonché tanti altri mondi quanti sono gli animali esistenti, che inevitabilmente percepiscono il mondo, il loro mondo mediante la propria biologia, la quale decide, come anche per noi, il modo, il campo ecc. relativamente percepibile.
Per l’uomo la cosa è peculiarmente più complessa, poiché egli non è soltanto condizionato dalla propria biologia in senso diretto, ma lo è anche in senso indiretto cioè dalla natura proiettiva dei propri schemi mentali che via via si vanno formando nel corso della propria vita.

Alla luce di tale constatazione, si può affermare, dunque, che ciò che viviamo è solamente ciò che costruiamo, pertanto riteniamo vero solo quello che i nostri schemi decidono che sia. Costruire significa in pratica semplicemente interpretare la realtà in un modo personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l'esperienza.

La realtà perciò non verrebbe quindi scoperta, come molti erroneamente credono, ma semplicemente inventata (concetto ampiamente esteso in un mio passato articolo "La realtà inventata").

Dunque, se la realtà che crediamo “assolutamente” vera viene fabbricata in stragrande maggioranza dalla nostra conoscenza pregressa, cioè il frutto delle nostre passate esperienze, viene conseguente affermare, che il pregiudizio sia proprio una delle costruzioni più estreme, dove la caratteristica attribuzionale dei nostri pensieri effettua la maggiore distorsione percettiva. Il pregiudizio allora non sarebbe altro che una proiezione, una attribuzione conoscitiva propria, che per necessità previsionale addossiamo all’altro, considerado ciò come fatto vero, ma in realtà è giusto osservare, che esso non è altro che una nostra fissità mentale (il giudizio) che erroneamente consideriamo posseduta dall’altro.

Ciò è dovuto alla nostra limitazione conoscitiva, che necessariamente non può prevedere tutto e tutti, poiché altrimenti avremmo dovuto aver fatto nella nostra vita, tutte le esperienze possibili ed immaginabili per avere una conoscenza onnisciente capace di prevedere tutto e tutti… ma ciò non è assolutamente possibile!

La pratica quotidiana, infatti, ci dimostra tale realtà limitativa del nostro conoscere, questo lo possiamo notare rendendoci conto della continua presenza nella nostra attività costruttiva di contraddizioni, di metafore usate come uguaglianze e del gran numero di pregiudizi utili a prevedere la realtà, che altrimenti temeremo senza tali elaborazioni artificiali. Tale lavoro di processamento attribuzionale, non è altro che una conseguenza della nostra pochezza mentale, e anche se nevroticamente utile a farci sfuggire dall’ansia, che necessariamente emergerebbe per paura del non prevedibile (l’altro), costituisce di fatto l’espressione più evidente della natura ossessiva e difensiva della nostra mente.

Per esempio, se osserviamo le connotazione metaforiche tipiche dell’individuo conoscente (cioè noi stessi), possiamo osservare che il più delle volte, esse perdono la caratteristica d’utilità previsionale (assomiglia, sembra, ecc) e acquistano la valenza attribuzionale disfunzionale costituita dall’uguaglianza.
Ciò avviene per necessità nevrotica (insicurezza, limitazione cognitiva ecc.), in tal caso si è portati ad usare la metafora come identità, sono un... ; siete dei... ecc, in tal modo si è così portati ad identificarsi o ad identificare l’altro con l’oggetto della metafora, ed ecco palesemente ed eclatantemente nascere nella propria conoscenza una distorsione costruttiva della realtà.

Il pregiudizio, difatti, non è altro che una distorsione interpretativa ben articolata composta da concetti e metafore, che vengono applicate sull’altro al fine di categorizzarlo proiettivamente attraverso le proprie categorie. Un errore grossolano che costituisce un’azione abbietta “utile a se stessi” ma fortemente disfunzionale per l’altro. Infatti, all’origine del pregiudizio troviamo sempre, che l’emettitore iniziale dello stesso, sia una persona con forti caratterizzazioni speculative, ove l’aspetto attributivo è generalmente segnato da componenti di personalità facilmente colorate da caratterizzazioni paranoidee, una personalità, dunque, disturbata che trae beneficio dal discredito dell’altro.


Ribadendo, il pregiudizio è un processo cognitivo attraverso il quale utilizzando una griglia di categorie già possedute prevediamo l’altro. E’ chiaro che costruzioni così fatte sono per l’appunto pregiudiziali, proprio perché traggono la valutazione da riferimenti preconfezionati. Talvolta in conseguenza della loro stessa natura, rappresentano realtà comunicazionali dove l’ostilità per l’altro è proprio espressa dal pregiudizio.

In sintesi, essi sono utilizzati per connotare le persone che si conoscono poco o che per la loro natura esistenziale si pongono in modo da non rispecchiare le aspettative dell’altro, con superficialità e con elementi poco certi e indiretti. Pertanto in tale realtà, siffatte persone vengono costruite come temibili non perché lo siano realmente, ma solamente perché non facilmente comprendibili alla massa, che il più delle volte, attraverso il pettegolezzo, diviene preda di una “follia pregiudiziale epidemica”. Una malattia, dunque, che si pone nell’ottica non di una psicologia individuale, ma di una psicologia detta delle masse, ove il singolo individuo esercitante l’azione pregiudiziale, non possiede più una propria valenza costruttiva, un proprio modo di osservare il mondo (il non essere, il non pensare, ma solamente contribuire al mantenimento della “follia” come un gregario strisciante), ma detiene ormai una costruzione costituita dalla distorsione percettiva della massa.

I pregiudizi, quindi, dando una conoscenza rapida ed economica ma fuorviante falsano le previsioni, e come la metafora, costituiscono ostacolo ad una visuale corretta della realtà.

In conclusione, il modo di vedere le situazioni dipende dal tipo di analogie che costruiamo per comprenderle, e il non renderci conto delle limitazioni intrinseche dei nostri processi cognitivi può condurci all’arroganza e a stigmatizzare la differenza (l’altro costruito diverso) nell’ottica della propria visuale rigida e pregiudiziale. Emerge così la presunzione, che ponendosi coattivamente in una prospettiva rigidita, diviene l’unica ed indiscussa artefice di ciò che l’altro “deve” essere. Un’azione questa, che costituendo un’aberrante esigenza personale di osservare l’altro attraverso il giudizio preconfezionato e spesso diffondendolo mediante "contagio", diviene un’azione atta solamente a proteggere nevroticamente se stessi per mezzo dell’annullamento dell’identità dell’altro.
Pertanto la pochezza cognitiva (scarsezza di differenziazione, di integrazione e gerarchizzazione mentale – cioè rigida visuale del mondo) autrice del pregiudizio, si evolve quale arrogante artefice della propria e dell’altrui realtà.

Una aberrante azione proiettiva questa, volta al solo e personale uso e consumo!


Mazzani Maurizio

L'EMOZIONE E L'ADATTAMENTO... Il gusto della vita, la felicità e l'infelicità

Cos'è che costituisce la maglia della vita mentale?
Cos'è che definisce chi siamo ai nostri occhi e a quelli delle persone che frequentiamo?
Cos'è che rappresenta la nostra essenza personale?
Cos'è che decide come reagiamo agli eventi, le nostre sfumature e i nostri colori, cioè l'arcobaleno della nostra vita?


Che può essere se non l'altro sistema di conoscenza, quello chiamato mente emozionale, impulsiva e potente e che il più delle volte si presenta in modo illogico a tal punto da rimanere sconcertante alla stessa mente razionale!


Si, è proprio l'emozione che ci rende piacevoli o non graditi agli altri e a noi stessi, che ci da il gusto della vita, il piacere e il dispiacere, la felicità o l'infelicità. E' essa che decide il nostro atteggiamento verso l'esistenza, e questo attraverso la sua decodifica cognitiva che avviene con un processo d'attribuzione di significato allo stato neurovegetativo che ne è ad essa intrinsecamente collegato.


Che significa ciò?


Semplicemente che ogni emozione, come accennato anche nel precedente articolo, comporta fisiologicamente uno stato ben preciso di condizioni vegetative (per es. nella paura abbiamo: aumento del battito cardiaco, delle frequenza respiratoria, della sudorazione, pallore al viso dovuto a vasocostrizione ecc.), il punto è che tali stati negli animali dotati di consapevolezza, producono sentimenti emotivi coscienti. Col processo d'attribuzione di significato, quindi si costruisce l'emozione corrispondente, ed è essa l'unico risultato che ci porta ad avere i sentimenti che sono per loro natura consapevoli, e chiamiamo paura, amore, felicità ecc.


Le emozioni
, dunque, sono il risultato dei nostri significati percepiti, delle nostre valutazioni e dei nostri pensieri, e informano da una parte il sistema mentale di quando sta per raggiungere o fallire lo scopo della massimizzazione della sua capacità di previsione su se stessi e sull'ambiente (cioè la capacità di poter prevedere in modo esaustivo gli eventi interni ed esterni a noi stessi, il fulcro della nostra sicurezza), dall'altra comunicano lo stato che viviamo di fronte ad un qualsiasi evento. Pertanto la loro intensità dipende da come quest'ultimo è collegato alla previsione che stiamo per effettuare. Le emozioni sono vissute come episodi che passano e vanno via, distinte dai stati d'animo che sono più duraturi poiché prodotti da una maggiore elaborazione mentale. L'amore, che predispone alla cooperazione; la sorpresa che con l'innalzamento delle sopracciglia ci permette di raccogliere maggiori informazioni sull'evento imprevisto; la felicità che ci introduce una maggiore energia e ci rende entusiasti nei confronti di una qualche cosa che si debba svolgere; la tristezza che ci consente di adeguarci alla perdita significativa appena sostenuta, la cui caratteristica principale è la chiusura in se stessi normalmente solo momentanea, ha il fine di consentirci di elaborare tale perdita per riorganizzarci alla vita susseguente; sono tutte esempi di emozioni utili all'adattamento.

La risposta emotiva rappresenta la mobilitazione dell'organismo atto a fronteggiare l'ambiente, il suo fine è quello prettamente di consentirci l'adattamento in senso darwiniano. Altre caratteristiche manifestazioni emozionali ereditate geneticamente, sono la rabbia e la paura che si pongono quali emozioni fondamentali per la sopravvivenza. La loro funzione è preminente, poiché hanno il compito di preservare l'organismo di fronte al pericolo. Predispongono,
pertanto, alla difesa personale attraverso l'attacco e la fuga, e sono quelle che si presentano più invasivamente. Dunque, la loro caratteristica centrale è di rendere pronto l'organismo alla eventuale necessità di dover far fronte all'eventuale pericolo. La loro mobilitazione neurovegetativa (utile atavicamente nei contesti d'emergenza, per es. alla presenza di un animale feroce o ad un potenziale combattimento a corpo a corpo con un nemico), avviene attraverso: -aumento della sudorazione al fine di disperdere il calore eventualmente prodotto; -aumento del battito cardiaco e della respirazione per fornire maggiore flusso di sangue ai muscoli e maggiore ossigenazione; -immissione di adrenalina nel sangue per rendere l'organismo più capace. Quindi pronto ad ogni evenienza; -rilascio di zuccheri nel sangue, per avere a disposizione maggiori risorse energetiche ecc. Tale cambiamento interno dell'organismo avviene per renderci più efficaci di fronte al potenziale pericolo, un tempo ci consentiva di aggredire gli altri animali che ritenevamo di poter vincere o di fuggire in caso contrario. Era qui che l'attività previsionale, quella ereditata geneticamente (la conoscenza innata), controllata dalla mente emozionale, che entrava in funzione per consentirci le risposte più appropriate. Ogni emozione ci predispone ad un determinato comportamento specifico allo stimolo che l'ha prodotta. Si propone di guidarci in una determinata direzione che si è già rivelata utile innumerevoli volte nella nostra storia evolutiva, al fine di consentirci il superamento delle difficoltà della vita umana.

Le emozioni, dunque, guidandoci con saggezza nel percorso evolutivo filogenetico, ci hanno salvato la vita innumerevoli volte. Ora un semplice esempio immaginario per meglio comprendere i concetti esposti; siete in viaggio guidando la vostra automobile:
-osservate la strada e notate che è piena di curve e abbastanza stretta… concludete che non è
sicura;
-a tale conclusione ovviamente regolate la vostra velocità in modo che il percorso non sia per voi
pericoloso; -infatti, accelerate percorrendo i rettilinei e decelerate in prossimità delle curve.
Fin qui tutto bene, niente da dire, avete goduto primariamente dell'intelligenza acquisita geneticamente, quella emotiva che permette di difendere subitaneamente la vita. Ora riflettete: se ognuno di noi non possedesse tale intelligenza sarebbe sempre in pericolo di vita. Infatti nel caso dell'esempio, essa ha prodotto la paura utile affinché non aumentaste eccessivamente la velocità della vostra autovettura, cioè avete evitato di viaggiare ad una velocità troppo elevata, evitando così l'eventuale uscita di strada della vostra automobile con conseguenze facilmente immaginabili. Questo esempio per capire l'utilità della dell'emozione adattiva, ma andando oltre, vediamo che se per ipotesi, anche se difficilmente verosimile voi incontraste un leone nel parco della vostra città, ed anche non possedendo nessuna conoscenza sulla pericolosità di tale animale, la paura ancestrale vi salverebbe costituendo l'input che vi indurrebbe a fuggire al pericolo.
La mente emotiva ha di nuovo lavorato a vostro beneficio.
Ma il problema è proprio qui!
Quanti leoni potreste incontrare nel vostro cammino?

Quanti imprevisti da foresta amazzonica potreste trovare in Via Veneto a Roma o a Piazza Duomo a Milano?
Sicuramente nessuno, a meno che sia fuggito un animale feroce da uno zoo della città o dal circo vicino. Il punto è proprio questo, si possiede un sistema emotivo che non si è sviluppato adeguatamente per interagire con la realtà d'oggi. L’evoluzione emotiva, purtroppo, si è dimostrata più lenta rispetto allo sviluppo legato alla tecnologia e alla civilizzazione. Le emozioni non si sono adeguate al nuovo ambiente ricco di stimoli diversi da quelli atavici che le hanno prodotte. Il processo dell'evoluzione genetica dell’emozione è un processo lento che oggi il più delle volte si dimostra paradossalmente inadattivo. L’ambiente non è più quello di una volta, mentre il nostro sistema emotivo lo è. Per cui quest’ultimo si attiva molto facilmente, e quello che è più sconveniente, è che si attiva anche per generalizzazione e per somiglianza a quegli stimoli che l’hanno prodotto. Infatti, la maggior parte delle paure avvengono di fronte a stimoli che di per se stessi sono neutri, ma che assumono significatività se si sono presentati in contiguità con uno stimolo incondizionato adattivo di paura, essi dunque si condizionano suscitando da quel momento paura o ancor peggio, c'indurranno facilmente dell’ansia fobica.

Per esempio: immaginate di trovarvi ancora oggi con delle paure irrazionali verso alcuni specifici eventi, i quali per altre persone sono invece del tutto normali. Supponiamo che il motivo della vostra fobia possa essere dovuto ad un'educazione patologica, che vi ha costretto a vivere, da piccoli, l’emozione della paura ripetute volte. E questo perché vostro padre vi riprendeva e giudicava con superficialità ogni vostro operare talmente inadeguato ed inopportuno che spesso vi puniva anche con sculacciate, la risposta adattiva che avete provato è stata ovviamente la paura...

Cosa è successo esattamente?


Avete probabilmente vissuto una minaccia al vostro Io fisico, nonché psicologico, la risposta naturale era quindi la paura, ed essendo piccoli e non potendo fare altro, il discorso a riguardo rimane ovviamente molto complesso, ma ciò che a noi interessa per il nostro studio, è semplicemente la generalizzazione della paura a tutto il contesto o a parte di esso.
Di solito in questi casi accade che si sviluppa fobia non solo per l’evento attivante, ma anche per altri elementi che circoscrivono l’evento. Infatti, in questa esperienza, si è creato un legame tra la risposta naturale della paura condizionandola ad uno o più stimoli neutri presenti in quei momenti, oltre naturalmente alla persona di vostro padre: per esempio, a un tipo di atteggiamento, a un tipo di espressione facciale, eventualmente anche al luogo dove la misfatta avveniva ecc. Il punto è che tali condizionamenti, in altre parole i primari schemi cognitivi, rappresentando la conoscenza iniziale, vi si ripropongono con estrema facilità nell’età adulta poiché vissuti con forte intensità e/o per ripetute volte. Infatti, oggi sentite ansia di fronte a stimoli neutri che hanno una qualche relazione o somiglianza con lo stimolo primordiale, per esempio:
- una stanza che ricordi in qualche modo quella originaria;

- altre persone che vi fanno tornare in mente quella di vostro padre;

- un atteggiamento particolarmente rievocativo ecc., ecc.

Un esempio esaustivo anche se banale è la fobia dei cani: se avete vissuto una situazione spiacevole con un cane quando eravate piccoli è facilmente possibile che tale realtà si ribalti permanendo nell'età adulta, attraverso l’induzione di una fobia generalizzata a tutti i cani.
Con simili esperienze, quindi, vi potreste trovare a riprovare ansia appena costatate la presenza di uno stimolo simile a quello originario che vi aveva indotto la reazione di paura. Il condizionamento produce schemi di risposta emotiva di adattamento che vengono riattivati, come già detto, per contiguità a stimoli incondizionati simili a quelli originari.

Ora risulta naturale una domanda?
Perché ci troviamo a vivere tali emozioni il più delle volte con spiacevolezza, inopportunità ed esagerazione?

Il perché ve lo svelo subito, riguarda proprio il fatto che utilizziamo un apparato emotivo ancestrale per fronteggiare dilemmi postmoderni.
Per spiegare meglio tale concetto, uso le emozioni più spiacevoli, quelle che gestiscono l’emergenza dovuta a situazioni di lotta o di fuga. Nel caso delle emozioni di paura, e di collera, che sono reazioni condizionate di ansia. Qualsiasi stimolo neutrale, come nell’esempio precedente, che colpisca un individuo all'incirca nel momento in cui sia evocata una reazione innata di paura (una di quelle di cui ho parlato precedentemente, vale a dire quelle utili a gestire in tempo reale le emergenze della vita) acquista il potere di evocarla. Se la paura insorta nella situazione originaria è molto intensa, o se il condizionamento si è ripetuto per un buon numero di volte, la paura condizionata si stabilizzerà instaurando nella persona una paura nevrotica (dico nevrotica perché non più consona al contesto attuale, e che produce immobilizzazione e mancanza d'energia). In tal situazioni la risposta di paura ha una forte probabilità che possa estendersi, costituendo la reazione più veloce di fronte a stimoli che si avvicinano per caratteristiche allo stimolo condizionato. Di fronte a questa realtà appare dunque chiaro, che la loro facile insorgenza di fronte ad una moltitudine di situazioni emotivamente stimolanti, rappresenta un grosso inconveniente. L’incremento del battito cardiaco o della sudorazione per esempio, avviene anche per stimoli emotivi modesti e profondamente differenti con la minaccia e l'aggressione tipiche risposte d'adattamento. Ne consegue che queste reazioni condizionate si attivano, anche con variazioni dell'ambiente che ci impegnano anche se solo leggermente, cioè situazioni dove la nostra capacità previsionale è ridotta al minimo o erronea o addirittura mancante (per es. un incontro con una persona che abbiamo giudicato importante o che non conosciamo affatto; un ambiente di cui non possediamo nessuna conoscenza; in concomitanza di un semplice esame ecc., ecc.). La subitaneità, la mancanza del controllo razionale e volontario, fanno sicché, queste risposte adattive, siano purtroppo il più delle volte inopportune e malaccorte. Questa rapidità è essenziale osservandola dal punto di vista adattivo, perché consente di reagire subitaneamente evitando di perdere tempo in inutili elaborazioni razionali, ma diventa, ripeto, superflua o addirittura fastidiosa nei casi ove ciò non serve più.

Mazzani Maurizio

sabato 5 giugno 2010

Perché ci ammaliamo di quelle malattie chiamate Psicosomatiche?

Le emozioni come prodotti conseguenti alla stimolazione ambientale e sociale, quindi il processo di adattamento, possono influire se negativi, notevolmente sull’insorgenza di malattie psicosomatiche.
Le somatizzazioni quali ad esempio la gastrite, l'asma, la colite ecc., avvengono con una azione sull'organo di una tensione emotiva che agisce direttamente attraverso l'innervazione dello stesso.
Sono i processi di adattamento che comportando uno stato ben preciso di condizioni vegetative: per es. nelle condizioni di lotta o di fuga, abbiamo l'aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria ecc., che vengono iperattivati in concomitanza di stress.
Le emozioni che paradossalmente da adattive diventano disadattive.
Una paura che diviene ansia, una irritazione che diventa rabbia, e/o un organo viscerale che viene iperattivato.
Mentre le vere e proprie malattie psicosomatiche avvengono per via indiretta attraverso l'abbassamento dell'organizzazione difensiva intrinseca in ogni organismo.
Tale organizzazione è preposta alla vigilanza immunologica, ed ha dunque una valenza importante, se depressa, nell'induzione e nel decorso delle malattie psicosomatiche, da quelle classiche, fino ad arrivare all'estremo delle malattie neoplastiche.
Essa è in netto collegamento, se stimolata, alle condizioni ambientali in cui si trova.
Allora ci troviamo di fronte patologie indotte dall'eccessivo stress a cui l'individuo viene sottoposto.
La domanda allora viene spontanea: fino a che livello elementi psicologici possono influire nella insorgenza di malattie psicosomatiche?
E’ oggi ormai più che noto che studi di recente formulazione consolidano l’ipotesi che la malinconia, la depressione, la paura, le catastrofi personali e i drastici cambiamenti nella propria vita (perdita di un lavoro, separazione dal proprio coniuge, la morte di un proprio caro ecc.), e quindi tutto ciò che stimola negativamente la propria emotività generando stress, siano collegate con le affezioni psicosomatiche.
Le sperimentazioni nell’uomo e nell’animale, ci hanno dimostrato, che è possibile influire sulla genesi e sul decorso addirittura delle affezioni cancerose, e che le difese proprie dell’organismo possono essere determinanti in modo inequivocabile dalla reazione del sistema nervoso.
Si può dunque aggiungere che l’espressione emozionale, risulta essere espressa per vie comportamentali, con tensione fisiologica scaricata rapidamente (azione di aggressività dirette verso l’esterno) o intrapsichico (le malattie mentali: nevrosi, psicosi, ecc.) o inibita e repressa a tali livelli e, quindi, scaricata somaticamente.
E’ bene precisare che le modalità di scarica dell’emozione sono legate a dei propri stili di reazione psicofisiologica.
A questo punto lo sviluppo di una malattia psichiatrica o di un disturbo somatico, viene a dipendere sia dalla frequenza ed intensità delle stimolazioni emozionali negative, a cui il soggetto viene sottoposto, sia dal suo stile personale con il quale reagisce agli eventi negativi, geneticamente e/o modificato con l’apprendimento.
Ma che succede realmente nel sistema nervoso e nel sistema immunitario quando un individuo è sottoposto a stress continuati?
Essendo ormai chiaro il ruolo del sistema nervoso centrale nella regolazione dell’equilibrio fisiologico dell’organismo a svariati livelli. Chiarezza ottenuta da sempre più frequenti studi sperimentali su animali da laboratorio, i quali confermano l’ipotesi che lo stress, attraverso le modificazioni dei sistemi endocrino, immunitario e vegetativo, influenzano la induzione di malattie psicosomatiche.
La condizione psichica come già detto, influisce sulle più svariate malattie organiche, quali ad esempio: la colite ulcerosa, l’ulcera gastroduodenale, la leucemia ecc., fino ad arrivare a favorire l’insorgenza del cancro!
I più avranno sicuramente fatto caso al fatto che sotto stress si è più vulnerabili ad ogni malattia da virus e da batterio… perché?
E’ il sistema immunitario che sotto stress diminuisce la sua efficacia difensiva. Le difese preposte a difendere l’organismo dalle malattie diminuisce e quindi lo rende più vulnerabile. E’ proprio tale abbassamento delle difese immunitarie che fa sicché diminuisca anche la sorveglianza su eventuali proliferazioni cellulari atipiche ed afinalistiche oggetto delle affezioni neoplastiche. Insomma, in tali circostanze, il sistema immunitario viene meno al compito genetico al quale è preposto, che è quello di distruggere le cellule mutate in senso neoplastico e riconoscere le cellule proprie da quelle non proprie.
Che accade esattamente?
Si può dire, che la proliferazione cellulare in determinate zone dell’organismo va per conto suo, perdendo il controllo centrale… ed ecco appunto che potrebbe insorgere il cancro come malattia psicosomatica.
Pertanto è chiara la correlazione tra sistema immunitario, S.N.C. e stress.
Il sistema immunitario ribadisco, non ha solo la funzione anti-infettiva, ma sostanzialmente è preposto alla sorveglianza dei materiali macromolecolari prodotti sotto il controllo genetico. Detto più semplicemente, esso con la maturazione acquisisce quelle funzioni che le sono proprie geneticamente, rappresentate dalla capacità di riconoscere ciò che è proprio all’organismo e ad individuare e successivamente ad eliminare tutto ciò che viene riconosciuto come estraneo all’organismo stesso (per capire meglio, basta ricordare i rigetti nei trapianti d’organi, infatti tali trapianti sono resi possibili solo da forti farmaci immuno-depressivi proprio per far abituare l’organismo alle cellule estranee, ma comunque compatibili, poiché altrimenti sarebbe impossibile come avviene in taluni casi di trapianti). Questa sua funzione immuno-sorvegliante è di vitale importanza all’organismo.
In sintesi si può dire che risiede, dunque prorprio in questa funzione sopradescritta, se depressa, la possibilità dell’insorgenza di malattie infettive, e la possibile genesi di una proliferazione cellulare sdifferenziata (neoplasia).

Maurizio Mazzani