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mercoledì 9 giugno 2010

Il RELATIVISMO ASSOLUTO “la contraddizione in termini per eccellenza"

Parlare di assoluto sicuramente i più ne rimarrebbero sbigottiti… direbbero ma come assoluto se l’assoluto non esiste, a meno che si intenda osare assumendo come assoluto Dio o Allah come dir si voglia con tutti i suoi vari rappresentanti profetici: Maometto, “Gesù”, ecc., ma nonostante ciò appare oggi ormai più che chiaro, che anche nell’area mistica, di assolutamente certo non c’è proprio un bel niente!
Non si può più identificare il divino con l’assoluto a meno che si abbandoni la logica a favore della fede religiosa, ma sappiamo che di fedi religiose ce ne sono tante, per cui anche in questo caso, appare impossibile assumerne una come assoluta, quando siamo consapevoli della presenza di altre, le quali potrebbero essere altrettanto valide.
Ma spesso ci volgiamo al mondo reale con la stessa fede irrazionale con cui ci dirigiamo al divino. Per cui poniamo per necessità, il più delle volte inconsapevolmente quindi senza una minima riflessione, come assoluto dei riferimenti che oggettivamente non lo sono.

Le norme culturali (la sovrastruttura: per es. la cultura occidentale od orientale o araba o ancora le culture primitive tipo tribali presenti in alcune popolazioni dell'Africa centrale o presso gli ultimi aborigeni del continente australe; ecc.) ne sono l’esempio, e l’etica e la morale che sono all’interno, ne costituiscono i riferimenti comportamentali per eccellenza, che erroneamente sono creduti assoluti.

Ognuno di noi possiede all’interno del suo sistema pensante, la sua etica e la sua morale che non sono altro che la sottocultura partorita dalla sovrastruttura culturale. Ed è proprio ciò che vige nella maggior parte dei casi, ed in maniera assolutamente irremovibile, come guida del nostro comportamento.
Le rigidità assolutizzanti e preconcette ne sono l’esempio. Esse rappresentano i punti di riferimento del sistema cognitivo, i concetti fondamentali, con i quali valutiamo il mondo e noi stessi. Sono proprio tali concetti che costituiscono ciò che di “assoluto” vige nella nostra struttura mentale.

Assolutismo/relativismo dicotomia impossibile se non solamente accademica, per cui cercherò di farvi giungere alla consapevolezza dell'inesistenza di certezza assoluta, ma solamente relativa che a nostro “piacimento” consideriamo assoluta.

Tale consapevolezza sarà di vitale importanza, poiché è proprio sul relativo che noi poniamo come assoluto, che si basano gran parte delle nostre difficoltà nell’affrontare la realtà quotidiana: l’origine dei nostri nevroticismi, l’incapacità di spostarsi facilmente, potendo così costruire il mondo e noi stessi da un diverso orizzonte, da una differente angolazione, un'angolazione dissimile da quella che s'impone coattivamente al nostro vivere.
La dimostrazione è semplice basta pensare, come già accennato, alle differenti sovrastrutture culturali ancora esistenti sul nostro pianeta. Esse possiedono come riferimenti assoluti elementi diversi, ed è chiaro che ogni cultura è diversa da un'altra nella misura in cui questi elementi relativi vengono assunti come assoluti.
Un esempio in tema, è il concetto di normalità, la quale è differente nelle diverse culture. Essa significa, infatti, solamente essere nella norma, cioè appartenere a quell'insieme d'individui che rappresentando la stragrande maggioranza, costituiscono il riferimento normativo, cioè il criterio socio culturale guida, tale da poter differenziare altri che hanno caratteristiche diverse, cioè anormali (fuori della norma).
Pensate ad esempio alla cultura araba dove avere due o più mogli è largamente accettato, quando nella nostra cultura ciò non solo non è normale, ma anche punito dalla legge. O ancora la circoncisione dei bambini ebrei, che rappresenta l'iniziazione religiosa, elemento importantissimo per quella gente, ma che è da noi occidentali invece impraticata, per cui farlo sarebbe considerato non normale. O per estremo pensiamo al matriarcato presente in una cultura tribale dell'Africa centrale, invece del patriarcato presente nelle restantanti culture. Infine, altro esempio, il far calzare delle piccole scarpe per anni alle bambine cinesi, per impedire che il loro piede cresca più di tanto, poiché in quella cultura avere le donne un piccolo piede rappresenta un aspetto di gran grazia, per cui esse, con sofferenza, sopportano tale costrizione culturale come una normalità, mentre per noi sarebbe pura follia!
Pertanto quello che deve essere ben chiaro, ed aver raggiunto la vostra consapevolezza, è che l'unico assoluto possibile è la certezza dell'inesistenza di certezza.

Il relativismo assoluto che è una contraddizione in termini, non è altro che una mera invenzione dell'uomo per ottemperare al suo bisogno di sicurezza. L'unica realtà che ci riguarda è il relativismo, ed in particolar modo, essendo ciò che c'interessa, il relativismo quindi dei nostri fatti mentali, delle costruzioni su noi stessi e sul mondo, per cui ogni nostro comportamento, ogni nostro pensiero, ogni emozione non è altro che il derivato della nostra teoria di come i fatti avvengono. Tale teoria è la risultante degli scambi tra noi e il mondo, per cui rappresenta la sottonormativa alla quale ci atteniamo quando ci comportiamo. Assumere come assolutamente oggettiva una semplice interpretazione soggettiva degli eventi psicologici a noi collegati è la premessa all'infelicità.


Ora facciamo una riflessione circa il relativismo dei fatti mentali, per far questo, basta semplicemente pensare ad una qualsiasi vostra situazione passata, dove vi siete comportati aggressivamente con rabbia per via di un qualcosa che in quel momento avete giudicato importante, a tal punto da sentirvi feriti nel vostro amor proprio (ferita egoica), ma che poi dopo un po' di tempo, ripensandoci sopra, facilmente vi è accaduto di dirvi, ma che stupido che sono stato ad arrabbiarmi in quel modo, in fin dei conti quella cosa che avevo giudicato così importante non lo era affatto, e per di più c'è andata di mezzo anche mia... ecc., ecc.

Il punto è proprio questo: per quanto riguarda il relativismo delle differenti normative sovra-culturali, sono convinto che sia già patrimonio di tutti voi, per cui credo che non ci sia altro da aggiungere; mentre comprendere consapevolmente il relativismo dei fatti mentali, sia vostri che altrui merita ulteriore attenzione. Per cui riflettendo sulle vostre costruzioni sul mondo e su voi stessi, potete notare che esse risultano facilmente assolute in un momento, per poi apparire estremamente relative solo dopo poche ore al semplice riesame, come spiegato sopra, e questo quando riuscite a spostare il vostro punto di vista come ho già accennato.

Dunque, tutto è relativo come ovviamente tutte le costruzioni sul mondo e su voi stessi, per cui quando state nevroticamente male perché avete interpretato un fatto in un certo modo ricordatevi che è sempre, è sempre una costruzione relativa dell’evento che in quel momento giudicate assolutamente spiacevole, ma che potreste rivedere e rendere la costruzione più consona alla realtà, pertanto più oggettiva.


Mazzani Maurizio

CRESCITA MENTALE: acquisizione di conoscenza, invalidazione, incremento conoscitivo e valore dello stress

Il comportamento, da individuo ad individuo, e nello stesso individuo, da momento a momento, è differente; crediamo e pensiamo cose diverse, abbiamo mentalità diverse, cioè prevediamo cose diverse. Il progressivo cambiamento di conoscenza ha luogo nel momento d’incontro tra la conoscenza posseduta, che crea aspettative e la verifica di queste con l’esperienza. In tale momento avviene la validazione e l’invalidazione che costituiscono il dinamismo centrale dell'acquisizione di conoscenza.
L’invalidazione, in particolare rappresenta, in base ai processi dell'"assimilazione-accomo
damento", l'occasione d’arricchimento e di sviluppo delle capacità previsionali. Il fenomeno è spiegato dal fatto che la crescita mentale, come detto, avviene per integrazione e per sostituzione, e non soltanto per aggiunta di nuove informazioni. Per meglio capire, immaginate di versare dei colori in un bicchiere pieno d'acqua (tanti colori quante sono le esperienze fatte a un dato momento), se guardate nel bicchiere noterete che il prodotto finale non è un insieme di colori distinti, ma un solo colore quale risultante della miscelazione di tutti gli altri (ogni colore precedente condiziona il nuovo)... la conoscenza segue lo stesso iter, la risultante conoscitiva, a un dato momento, è e sarà sempre l'integrazione dei significati (i colori) dati a ogni singola esperinza che avete vissuto.

L'incremento conoscitivo ci consente una maggiore disponibilità di soluzioni (abilità al problem solving), come anche una maggiore malleabilità al decentramento dalla propria visuale soggettiva, che è elemento fondamentale per un buon funzionamento psichico.
E' il sistema di conoscenza dell’individuo, le sue convinzioni centrali, che decidono il livello di vulnerabilità posseduto, e le reazioni psicofisiologiche che saranno messe in atto di fronte ad un potenziale agente di stress.
Insuccessi, rifiuti, perdite, è impossibile evitarli, ma dal punto di vista psicologico "non è importante l'evento in sé" quanto il modo con cui si reagisce, cioè la propria reazione emozionale. "Non è importante ciò che succede", ma il modo come lo prendiamo rappresenta il fondamento della salute. A riguardo, ricordiamo per esempio, affermazioni di grandi autori anche non appartenenti all'area cognitiva come: C. Du Bois, secondo il quale le idee scorrette producono disagio psicologico; A. Adler, con la sua contrapposizione tra "intelligenza privata" e "senso comune"; Kant, il quale riteneva che le malattie mentali si manifestano quando una persona non riesce a correggere il suo "senso privato" con il "senso comune"; e persino in Marco Aurelio: "se ti è data sofferenza da qualche cosa esterna, non è questa cosa che ti disturba, ma il giudizio su di essa, ed è in tuo potere eliminare questo giudizio”; ancora in Epitteto, "gli uomini non sono mossi dalle cose, ma dalle visioni che di esse hanno".

Il riferimento agli schemi cognitivi-emozionali (strutture di significato), rappresenta il fulcro dell'agire terapeutico. Tali schemi, che ciascuno sviluppa durante tutta la sua vita, si ancorano primariamente durante i primi anni, al contatto col mondo esterno e con le esperienze interne. Essi sono una specie di "filtro" attraverso il quale osserviamo il mondo e noi stessi, in un modo che è specifico per ciascuno. Definiscono, inoltre, da un lato, le aspettative su ogni contesto e i calcoli possibili da compiere, dall'altro le limitazioni conoscitive tipiche all'individuo al quale lo schema appartiene.
Pare accertato, che il modello personale con il quale si costruisce la realtà, sia di indiscutibile centralità, per cui è bene fare attenzione alla struttura cognitiva tipica dell'individuo conoscente, quando si parla di valore stress.

Le sfaccettature del pensare, dunque, condizionano la propria esistenza, e se queste sono prettamente irrazionali comportano distorsioni nella costruzione della realtà. La condotta della vita si svolge in coseguenza al tipo di dinamica che caratterizza il processo interpretativo. Un processo tipicamente diverso tra individuo ed individuo di elaborare le informazioni.
E' la visuale conoscitiva, propria alla nostra mente, di fatti, che decide ciò che viviamo. Se questa, in relativo a noi e al nostro benessere, si mostra disadattiva, poco efficace a guidarci nel mondo, ecco che le deviazioni del pensiero mostrano le più svariate bizzarrie interpretative: dalla nevrosi alla psicosi.
La corretta funzionalità del pensiero costituisce la valenza centrale per il buon adattamento e per l'ottenimento di ciò che ambiamo.
Cosa interessante, è che l'attenzione alla modalità del conoscere la ritroviamo addirittura in alcuni importanti aspetti del buddhismo.
Tocco e fuggo subito, l'esigenza della "liberazione" intrinseca nella religione buddhista, viene per la prima volta sottolineata in termini di pensiero logico e razionale e non da una rivelazione mistica. La "liberazione" in questa dottrina viene chiamata "via mediana" perchè equidistante sia dall'ascetismo fanatico sia dall'edonismo assoluto.
Per meglio esplicare ciò, cito alcuni versi del testo canonico buddista:

“E' bene che si domini il pensiero, inafferrabile, leggero, che si getta su ciò che gli piace; il pensiero domato è portatore di felicità”.
“Custodisca l'uomo accorto il pensiero, difficile da percepire, guizzante, che si getta su ciò che gli piace; il pensiero ben guardato porta felicità”.
“Per colui il cui pensiero è instabile, che non conosce la "Buona Legge", la cui calma mentale è turbata, per costui la conoscenza non è completa”.
“Di ciò che potrebbe fare un odiatore ad un odiatore, un nemico ad un nemico, molto più male fa (all'uomo stesso) il (suo) pensiero falsamente diretto”.

(Il Buddha attraverso il Dhamma-Pada (I versetti della legge; testo canonico buddhista), testualmente da "Citta-Vagga" (Il pensiero): 36esima, 37esima, 38esima e 42esima strofa)

La sorpresa non finisce qui, anche in testi induisti, nel famoso capitolo “il Bhagavad Guita” della vasta opera Hindù Mahabarata, troviamo riferimenti alla correzione del pensiero falsamente diretto.

E' il sistema di conoscenza che è oggetto di conoscenza, l'incremento della meta-cognizione, della capacità riflessiva è, difatti, l'elemento centrale dell'agire terapeutico.

In conclusione, cìò che percepiamo è relativo al nostro sistema di conoscenza cognitivo-emotivo quale risultante delle esprienze vissute, ed è questo, quindi, che decide il valore e il significato che si da alla vita e alle componenti che la caratterizzano.
In pratica, se un'esperienza "dannosa" la interpretiamo come catastrofica, ecco che il cuore, il sistema immunitario e il sistema digerente ecc. sono messi a grave rischio. Se la cosa è osservata sì come negativa, ma non tanto spaventosa da non poterla assorbire, la risposta dell'organismo è meno invasiva. Pertanto, l'attività biochimica cerebrale aumenta solo quel poco da permettere una risposta efficace, senza ridurci all'impotenza.
Per conoscere se certi eventi della vita correlano con manifestazioni patologiche conclamate o con un quadro di disagio psichico, dunque, principalmente bisogna vedere in che modo gli individui valutano e affrontano le loro esperienze.

Mazzani Maurizio

martedì 8 giugno 2010

Che cos'è l'ottimismo? si può diventar ottimisti? come si fa in tal caso?

Dietro questa rassegna di domande c’è sicuramente la voglia di capire cosa sia, ma soprattutto sapere se sia realmente apprendibile, o se devono rassegnarsi coloro che non possiedono tale qualità.
Vi rassicuro subito, l’ottimismo non è un pregio innato, bensì un modo d’essere che può essere appreso.
Interessante… vero!
Esso costituisce una particolare modalità di rapportarsi con se stessi, e può costituire la base per una vita più serena.

Perché asserisco ciò?

Semplice, poiché esso essendo un particolare stile di dialogo interiore con il quale si affrontano le avversità, ne consegue che da esso dipende il nostro benessere.
Tale linguaggio interiore rappresenta “la guida personale” che ognuno si forma dal primario linguaggio egocentrico, caratteristico del periodo infantile (linguaggio che il bambino piccolo usa anche a voce alta tra sé e sé, in special modo durante il gioco).
Esso è l’insieme sia dei pensieri consapevoli sia di quelli automatici, quest’ultimi sono quelli che hanno la caratteristica di by-passare l’intelligenza razionale, quindi, il controllo volontario (in un certo qual senso costituiscono il famoso inconscio freudiano).

E’ attraverso questo parlare tra sé e sé che nell’età adulta si effettuano le funzioni di controllo. Tale linguaggio è il pensare tra se stesso, quello che avviene silenziosamente per sommi capi, e costituisce la stabilizzazione e la guida del nostro comportamento. Tramite esso noi monitoriamo le nostre azioni, le valutiamo autoerogandoci premi e punizioni, esso non è altro che il nostro stile esplicativo con il quale ci spieghiamo fallimenti e successi.

Avere uno stile ottimistico ci permette di vivere le avversità meno pesantemente. Tale stile, infatti, è contrassegnato da una modalità costruttiva positiva di affrontare la vita; ciò porta il più delle volte ad evitare di penalizzare se stessi quando ci si trova di fronte ai fallimenti. Ogni spiegazione è circoscritta al semplice evento spiacevole.

Quello che importante comprendere è che lo stile esplicativo pessimista e ottimista non si differenziano soltanto dalle diversità del contenuto del dialogo, ma anche, ed è la cosa più importante, dalla modalità con la quale si attribuiscono le cause.

I fallimenti hanno il potere di farci sentire impotenti, l’impotenza che ne risulta è chiaramente appresa, e produce generalmente soltanto sintomi depressivi temporanei, a meno che possediamo uno stile esplicativo pessimistico. In tal caso un elementare inconveniente, una semplice sconfitta, può farci sprofondare in una depressione grave.
La personalizzazione, la pervasività e la permanenza sono gli ingredienti che caratterizzano lo stile esplicativo pessimista, ma acquisendo una nuova conoscenza essi possono essere moderati o addirittura cambiati.
Il modo di rapportarsi al reale con tale stile comporta non pochi problemi. Vediamo che il pessimista attribuisce (personalizza) i motivi dei suoi potenziali fallimenti a se stesso ad esempio: (“è causa mia se ho fallito”); generalizza globalmente (“giacché non sono stato capace a parlare opportunamente in quella circostanza, non valgo nulla”); ed infine lo proietta permanentemente nel tempo (“tale errore lo subirò tutta la vita”). Ne consegue che ad una tal persona, è facile dedurlo, basta un semplice fallimento nel lavoro o negli affetti per cadere in depressione.

Appare, dunque, razionale che tale aspetto negativo con il quale ci rapportiamo al reale, sia preso di mira per essere cambiato. Il punto interessante è proprio qui: è il tipo di stile esplicativo che decide se saremo o no persone felici.

Ma non preoccupatevi! Con un opportuno training di acquisizione di nuova conoscenza si può apprendere quello ottimista, come qualsiasi altra abilità che possa essere appresa attraverso un semplice allenamento.
Per meglio spiegare lo stile esplicativo ottimista, aggiungo inoltre, che l’atteggiamento positivo nei confronti della vita che lo caratterizza, è volto verso un ampio raggio d’azione. Ma badate bene, con atteggiamento positivo non intendo, come alcune correnti psicologiche affermano, il pensiero che delinea i banali proponimenti da ripetersi innumerevoli volte, tipo: “ho fiducia nel mio successo e nelle mie qualità”; “voglio amar me stesso e gli altri”; “io so di farcela”, “mi accetto come sono”; “ valgo tanto da raggiungere qualsiasi obiettivo”; ecc., ecc., ma, rappresenta l’abilità di non condurre il proprio pensiero contro se stessi producendo danno, bensì a nostro favore, producendo benessere. Il suo raggiungimento si può ottenere attraverso un training cognitivo orientato all’autoconoscenza e alla correzione del pensiero irrazionale e falsamente diretto, in modo da acquisire l’atteggiamento positivo. Riuscendo a cambiare la modalità errata, quindi svantaggiosa con cui pensiamo ai nostri problemi, (un problem solving costruttivo), consegue così l’affievolimento, per esempio la disforia seguita ad una qualsiasi avversità, che per estremo può essere, se razionalmente costruita, addirittura tramutare in euforia.
Si possediamo questo potere… noi siamo ciò che pensiamo!
Non esistono energie interne talmente forti, come asseriva la psicoanalisi, o condizionamenti talmente efficaci, come asserisce il comportamentismo americano, tali da decidere quello che siamo!

Mazzani Maurizio

La percezione della propria autoefficacia quanto influisce sulla capacità di far fronte allo stress?

Il senso d’autoefficia è un particolare atteggiamento mentale positivo verso se stessi. Tale atteggiamento nella pratica terapeutica è visto come un obiettivo da raggiungere. Stimolare nel soggetto la messa in prova delle proprie capacità, esperire le situazioni di cui si è portati ad esagerarne le difficoltà e sulle quali si ritene di non possedere le abilità sufficienti per affrontarli, costituisce un passo necessario per ripristinare un senso d’efficacia perso o per acquisirne maggiore. Affrontare le situazioni che creano ansia in modo sistematico, cioè avendo l’accortezza di ponderare dettagliatamente le proprie forze spingendoci ogni volta solamente un poco in più, affinché la probabilità di successo sia molto alta, rappresenta la pratica terapeutica per acquisire sicurezza e incrementare la propria percezione d’autoefficacia.

Agire sistematicamente sulle proprie paure, spesso irrazionali, attraverso la pratica esperenziale, consente d’incrementare la consapevolezza sulla propria personale efficacia nella gestione delle problematiche di vita.

Generalmente nelle situazioni nevrotiche, in cui il proprio equilibrio psicologico è compromesso e i nostri pensieri sono caratterizzati da una valenza autosvalutante, ci si trova irrazionalmente nella condizione di sottovalutare le proprie abilità di fronteggiamento delle avversità e dello stress che ne consegue.

Gli Atteggiamenti negativi del tipo impotenza e disperazione, sono per esempio, alla base della convinzione di essere inefficaci nel gestire le avversità insite nella vita di ciascuno di noi.
E’ palesemente dimostrato il fatto che la convinzione che si ha circa la proprie capacità possiede una grande effetto proprio su quest’ultime.

Brevemente per modificare la percezione della propria abilità di fronteggiamento, è principalmente opportuno, dunque, che vi convinciate di confrontarvi con determinati compiti, secondariamente di cimentarvi con attività di cui siete portati ad esagerarne le difficoltà. Per far ciò dovreste cercare di razionalizzare e autoincoraggiarvi, a mettervi anche a confronto con gli altri, poiché ciò rappresenta l'opportunità per avere dei modelli che riescano laddove voi non riuscite, dandovi così una spinta ad aver successo, senza però, ovviamente, cadere nella competizione irrazionale che ha la sua radice esclusivamente nella neurosi.


Per cui la cosa più tangibile rimane come sempre la pratica. Infatti è "attraverso l'esperienza del successo" che potreste nutrire più di ogni altra cosa il senso dell'efficacia personale.

E' noto da secoli che "nulla conduce al successo come il successo stesso".

La vostra presente condizione di fiducia in voi stessi e di equilibrio non è il risultato di ciò che avete imparato, ma di ciò che avete "sperimentato". L'esperienza pratica della vita è maestra dura ed impietosa. Gettate un uomo nell'acqua profonda e l'esperienza gli insegnerà a nuotare, ma la stessa esperienza può far affogare un altro uomo.

E’ proprio l'esperienza, quindi, che promuove il cambiamento, che in questo caso è costituito dall’aumento della fiducia in sé stessi.

Il punto è semplicemente incoraggiarvi a mettervi alla prova, ma con un piano di sviluppo opportuno, per far sicchè si evitino conseguenze di una pratica avventata. Dovete pianificarvi il raggiungimento di mete con crescenti difficoltà per evitare tassativamente il rischio di incombere. Ciò sarebbe particolarmente nocivo perché confermerebbe la vostra errata convinzione di non essere abili nel gestire la vostra realtà.

Le concezioni sulla validità dell’incremento del senso d’autoefficacia, pongono il loro fulcro nella forza delle motivazioni personali e nell'importanza di poter influire sul proprio destino. L'esser convinti di poter riuscire, costituisce, quando sono presenti le stesse competenze, un vantaggio al raggiungimento dell'obiettivo prefissato, quindi maggior benessere. E’ proprio la consapevolezza di poter agire con efficacia al raggiungimento dei nostri scopi che pone la pietra angolare del benessere psicofisico. Il raggiungimento dello scopo primario è il sano mantenimento della nostra unità psicofisica. Esso costituisce il fulcro sul quali ruotano tutti gli altri scopi di vita presenti nella nostra realtà motivazionale. Il soddisfacimento di bisogni fondamentali quali amore e attaccamento, e complementari come successo, potere. riconoscimento, ecc., ecc. costituiscono il motore del nostro comportamento nella visuale mediana della dicotomia libertà determinismo. Noi siamo, in concomitanza a fattori biologici ereditari e a fattori ambientali e sociali artefici del nostro destino.

L'autoefficacia percepita in realtà significa come la mente si ponga di fronte ad un problema da risolvere o ad un obiettivo da raggiungere. L'autoefficacia percepita corrisponde, dunque, al senso di personale forza che proviene dalla consapevolezza di essere abili ad affrontare una determinata situazione, ciò deriva dal modo di percepire sé stessi e di porsi in rapporto con la realtà.

Nella terapia
, infatti, si usa proprio l'esperienza per promuovere fiducia in sé stessi, quindi la persona deve essere, continuamente incoraggiata a mettersi alla prova, ma con un piano di sviluppo opportuno, per far si che si evitino conseguenze di una pratica avventata. Si dovrà concordare, quindi, con il paziente, il raggiungimento di mete con crescenti difficoltà.

Mazzani Maurizio

PARLIAMO ANCORA DI STRESS... Cos’è e perché viene?

Immaginate di trovarvi seduti ad un tavolo con degli amici, quando ad un certo punto uno di voi racconta delle sue ultime vicende lavorative.
Egli dice:
-in questi ultimi giorni credo di aver lavorato troppo… mi sento molto stressato!
-ho cercato di comprendere le radici di questo stress ma non ci sono riuscito,
-la cosa strana, è che il lavoro che ho fatto mi ha gratificato molto, ed ho deciso io stesso di dedicarmici con così tanto impegno, ma… non capisco proprio il motivo dei miei sintomi.
-dovete sapere che la sera ho difficoltà ad addormentarmi e faccio fatica a concentrarmi.
A questo racconto ciascuno dei presenti è portato a riflettere su tali parole e cerca di offrire una propria opinione sull’evento.

Fate ora anche voi la stessa cosa, esprimete tra voi stessi un'idea sull’accaduto, cercate di spiegare, in base alle vostre conoscenze, la causa dell’insorgenza dello stress nel protagonista del racconto, poi confrontatela con la mia spiegazione.
Formulate e poi riprendete a leggere, ………………………………………………….
Appare chiaro che i più potrebbero rispondere che la causa dello stress sia dovuta all’eccessivo lavoro, altri alla eventuale gestione errata di quest'ultimo, altri ancora avendo forse più cognizione, potrebbero ricondurne la causa al rapporto che il protagonista ha con il proprio lavoro, alle sue costruzioni, interpretazioni cognitive che lo riguardano, altri invece con più semplicità potrebbero supporre che probabilmente il soggetto era già ad un elevato stato di stress, con ciò è bastato un momento di intenso lavoro per farlo cadere.
Bene, posso certamente affermare che le risposte sono più meno tutte esatte.
Le radici dello stress, al contrario di come spesso si è portati a supporre, ha un origine multifattoriale e non unifattoriale.

Lo stress dipende dunque, da vari elementi che accavallandosi, sommandosi l’uno con l’altro, producono ciò che comunemente viene chiamato esaurimento nervoso.

Quanti di voi si sono trovati a rispondere o a sentirsi rispondere, alla domanda: come stai -- la risposta mi sento un po’ esaurito, sicuramente molti. Infatti arrivare a sentirsi stressati è oggi alquanto facile.
Che significa essere stressati?
I sintomi più comuni conseguenti ad un affaticamento nervoso, possono essere ricondotti a:
- ipotonia muscolare o senso di stanchezza;
- sonno intermittente;
- difficoltà all'addormentamento
- difficoltà di concentrazione nei compiti mentali;
- facile irritabilità, ecc.

Il sistema nervoso, spiego, è come qualunque muscolo del corpo, il quale dopo un eccessivo sforzo, sia dovuto a molto lavoro fisico sia ad un uso errato dello stesso, è stanco “esaurito” ormai privo di energia e pieno di sostanze tossiche che con il tempo il corpo deve riassorbire. Ciò significa che l’organismo è impegnato a rigenerare le energie dissipate, quindi, come sappiamo, deve riposarsi.

Nel sistema nervoso accade più o meno la stessa cosa, esso durante il suo lavoro produce ormoni i quali devono essere riassorbiti. Il guaio nasce quando dopo un eccessivo e prolungato lavoro del sistema nervoso, si ha nel circolo sanguigno eccessive quantità di neurotrasmettitori, i quali devono essere riassorbiti con altro lavoro… ed ecco qui la stanchezza caratteristica dovuta allo stress. Si perché la loro eccessiva presenza costituisce tossicità per lo stesso organismo. L’adrenalina per esempio, tipico ormone prodotto dalle ghiandole surrenali a seguito di eventi allertanti, proccupanti, cioè l’ormone che predispone alla lotta e alla fuga, se è presente in quantità elevate diventa tossico e disorganizzante per tutto l’organismo. Infatti, se per sfortunati contesti di vita proviamo ripetutamente emozioni negative che ne stimolano la produzione, vediamo che l’organismo con il passare del tempo si debilita perdendo capacità di prontezza fisica e di attenzione mentale, i sintomi del protagonista della storia.

Si, cari lettori, una delle cause più comuni di disattenzione sul lavoro o comunque di scarsa attenzione durante l’esecuzione di compiti in generale, è dovuta proprio allo stress e in particolare alla sovraproduzione di sostanze neurotrasmettitrici.

A tali parole comunque, se siete soggetti a stress non spaventatevi, poiché esistono innumerevoli tecniche per combatterlo. Le più comuni sono:
-le Tecniche di Rilassamento che agiscono direttamente sul corpo;
-la Desensibilizzazione Sistematica che attraverso il rilassamento e le immagini mentali agisce sia a livello corporeo sia a livello cognitivo.
Le prime rappresentano un vero e proprio training di apprendimento al rilassamento, utile a far fronte alla risultante corporea dell'ansia (asma, palpitazioni, attacchi di panico, capogiri da stress, insonnia, nausea,ecc.) .
La seconda, dopo aver ottenuto uno stato di quiete corporea attraverso una qualsiasi tencnica di rilassamento, il soggetto viene invitato ad immaginare delle situazioni ansiogene appartenenti alla propria vita. Il razionale della tecnica sta nel fatto che se c'è rilassamento non può coesistere ansia, per via della loro natura antagonista. Le immagini hanno il fine di far abituare il soggetto ad affrontare le proprie situazioni temute.
Tale apprendimento traslato poi nella propria quotidianità, permette così di affrontare le medesime situazioni già vissute a livello immaginativo, che normalmente in vivo venivano evitate perché ritenute troppo ansiogene. Questo risultato lo si ottiene come conseguenza del cambiamento cognitivo verso gli eventi temuti.
Altre tecniche invece lavorano specificatamente sul sistema cognitivo della persona, sul suo modo di pensare, al fine di scoprirne le componenti irrazionali e contraddittorie che indurrebbero ansia. L’obiettivo di queste tecniche terapeutiche, è specificatamente quello di produrre un modo più razionale di valutare ed interpretare gli eventi di vita, un modo più funzionale, quindi più adattivo.

Un suggerimento per non cadere facilmente nelle malattie tipicamente prodotte dall’eccessivo stress, è quello di valutare gli eventi di vita con più malleabilità possibile, arrabbiatevi di meno… non serve a nulla, non irrigiditevi di fronte alle invalidazioni della vostre convinzioni, perseverando così negli errori al fine di conservare la vostra immagine di persona infallibile!

Prendete atto della realtà, essa in continuazione offre segnali utili per cambiare la strada che in quel momento si sta dimostrando fallimentare, sforzatevi a non diventare ottusi autoinvalidandovi da soli!
Cercate di non diventare ansiosi con troppa facilità di fronte alle cose che ritenete difficili da affrontare… pensate alla peggiore cosa che potrebbe accadere se doveste incombere di fronte all'evento negativo. Dopo tale valutazione, facilmente vi renderete conto che automaticamente siete portati ad esagerare, a catastrofizzare sulle conseguenze. L'amplificazione del pericolo, è purtroppo spesso la caratteristica del pensiero delle persone ansiose che hanno, di fatto, con un tasso di insicurezza elevato.

Infine, non dovreste mai dimenticare, che un buon funzionamento mentale è possibile solo se esiste una consistente libertà dalla tirannia del proprio Ego!

L'ansia è sempre conseguenza di previsioni, in particolar modo su se stessi, che si stanno dimostrando errate, e le difese di coerenza egoica ne sono le artefici.
La coerenza di significato personale (le idee su se stessi, ecc.), anche se disfunzionale, rappresentando l'orientamento della persona, è portata a resistere al cambiamento, e pertanto, pur di mantenere una sorta di coerenza conoscitiva, resiste spazzando via ogni buon senso!

Mazzani Maurizio

lunedì 7 giugno 2010

Personalità e stili d’affronto dello stress (il coping)

Il termine coping è un verbo inglese, che si riferisce, in linea generale, alle strategie comportamentali e cognitive messe in atto per fronteggiare un evento di vita negativo e lo stress che da esso deriva. I momenti che lo caratterizzano si distinguono in due fasi propedeutiche e il coping vero e proprio, e sono: 1- valutazione della minaccia alla coerenza di sé, in pratica all'immagine che possediamo di noi stessi; 2- elaborazione di strategie cognitive per affrontare l'evento stressante di pericolo. 3- il coping vero e proprio, vale a dire la fase esecutiva con la messa in atto di tali strategie.

E’ importante notare, che il significato attribuito all’evento stress è di vitale importanza per la “scelta” delle strategie di coping che saranno messe in atto. Il rapporto tra coping ed eventi stressanti è di natura tipicamente processuale. Sembra che ogni individuo processi cognitivamente la situazione stimolo, valutandone il potenziale significato, la propria capacità di affrontarlo, il senso di controllo della situazione e, infine, le eventuali conseguenze supposte.

Esistono differenti stili di coping: a- il coping orientato al compito, le cui strategie cognitive e comportamentali si orientano alla diminuzione dello stress attraverso la risoluzione del problema, e questo riorganizzando e ristrutturando cognitivamente le parti che lo compongono o semplicemente cercando di minimizzarne gli effetti nocivi. Le tecniche usate sono: la raccolta d’informazioni, il problem solving, il training volto all'incremento d’abilità interpersonali, mutamenti di stile di vita, sforzi volti a cambiare l'ambiente circostante, ecc. Tali tecniche sono le classiche modalità d'intervento della terapia cognitivo/comportamentale, infatti, lo sviluppo del coping del paziente, è uno degli obiettivi prioritari di tale approccio; b- il coping orientato all'emozione. Sono strategie verso il sé, che hanno il fine di cercare di dominare le reazioni emotive conseguenti agli stressor ambientali. Sono: il cercare il significato degli stress vissuti, esprimere apertamente le proprie emozioni, il training di rilassamento, il sognare ad occhi aperti, il rimuginare, il negare la realtà o la severità di un evento, ecc. c- il coping d’evitamento. Le cui strategie sono centrate al sottrarsi dalle situazioni stressanti, sia impegnandosi in compiti sostitutivi di distrazione (pulire la casa, guardare la televisione, uscire per fare delle cose, ecc.), sia cercando il contatto con le persone diversivo sociale.

Da studi fatti sulle tre dimensioni di coping è risultato importante la loro relazione con la psicopatologia o con la loro reale afficacia nel risolvere le problematiche stressanti. Da queste ricerche è emerso che la strategia di coping orientata all'emozione sia correlata alla depressione e all'ansia e a sintomi psicosomatici. Il coping orientato al compito si correla negativamente con le manifestazioni psicopatologiche, pertanto appare essere in generale quello più funzionale. Infine, gli stili di coping orientati all'evitamento hanno il fine di ottenere velocemente la riduzione dell'ansia, dando così veloce beneficio, ma l'uso di tali comportamenti evitanti, costituiscono, spesso, soluzione peggiore, poiché instaurano condizionamenti rinforzati dalla stessa diminuzione dell'ansia, cioè creano un circolo vizioso evitante, il tutto senza minimamente risolvere il problema iniziale. L'assunto di tale strategia sta nel fatto che, essendo l'ansia ritenuta, in parte, come l'aspettativa di conseguenze penose, l'evitamento produce sollievo proprio per la cessazione dello stato spiacevole, ma nello stesso tempo evita l'abituazione allo stimolo ansiogeno e l'impedimento della formazione di soluzioni cognitive più adattive. E' opportuno dire, che le strategie di coping sono tutte utili nel gestire lo stress, quello che è importante rilevare, è che esse devono essere utilizzate in modo sì scopistico, in pratica con l'obiettivo di raggiungere il fine prefissato, ma nello stesso tempo, tali azioni di coping, devono avere la bontà della logica. Quest’ultima affermazione ha il fine di sottolineare, che un individuo deve avere necessariamente consapevolezza delle strategie cognitive/comportamentali che utilizza per affrontare un dato problema, al fine d’essere pronto a rispondere agli eventuali feeb-back negativi. La modalità d’eseguire strategie di coping, per adattarsi all’evento stress, sono suddivise, dunque, in strategie funzionali, strategie meno funzionali e in strategie che non risolvono il problema/stress anzi, cronicizzano il problema-stress. In sintesi si afferma che le modalità d’affronto dello stress caratterizzate da una partecipazione più attiva, rispetto a quelle caratterizzate da una maggiore passività, risultano essere più efficaci nel fronteggiamento dello stress e al dolore ad esso collegato.

Mazzani Maurizio

domenica 6 giugno 2010

IL PREGIUDIZIO... un bisogno mascherato di anticipare l'altro attraverso categorie pre-costituite... solo utili a gestre l'ansia del non prevedibile!

Il fulcro della nuova psicologia è la natura costruttiva dei nostri schemi cognitivi, dei nostri pensieri, cioè di ciò che erroneamente crediamo vero. La realtà è da ciascuno di noi inventata, non esiste una corrispondenza esatta tra le nostre rappresentazioni e il mondo… essa può essere solo relativa. Esitono, di fatto, tanti mondi quanti sono gli abitanti del pianeta, nonché tanti altri mondi quanti sono gli animali esistenti, che inevitabilmente percepiscono il mondo, il loro mondo mediante la propria biologia, la quale decide, come anche per noi, il modo, il campo ecc. relativamente percepibile.
Per l’uomo la cosa è peculiarmente più complessa, poiché egli non è soltanto condizionato dalla propria biologia in senso diretto, ma lo è anche in senso indiretto cioè dalla natura proiettiva dei propri schemi mentali che via via si vanno formando nel corso della propria vita.

Alla luce di tale constatazione, si può affermare, dunque, che ciò che viviamo è solamente ciò che costruiamo, pertanto riteniamo vero solo quello che i nostri schemi decidono che sia. Costruire significa in pratica semplicemente interpretare la realtà in un modo personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso la comunicazione e l'esperienza.

La realtà perciò non verrebbe quindi scoperta, come molti erroneamente credono, ma semplicemente inventata (concetto ampiamente esteso in un mio passato articolo "La realtà inventata").

Dunque, se la realtà che crediamo “assolutamente” vera viene fabbricata in stragrande maggioranza dalla nostra conoscenza pregressa, cioè il frutto delle nostre passate esperienze, viene conseguente affermare, che il pregiudizio sia proprio una delle costruzioni più estreme, dove la caratteristica attribuzionale dei nostri pensieri effettua la maggiore distorsione percettiva. Il pregiudizio allora non sarebbe altro che una proiezione, una attribuzione conoscitiva propria, che per necessità previsionale addossiamo all’altro, considerado ciò come fatto vero, ma in realtà è giusto osservare, che esso non è altro che una nostra fissità mentale (il giudizio) che erroneamente consideriamo posseduta dall’altro.

Ciò è dovuto alla nostra limitazione conoscitiva, che necessariamente non può prevedere tutto e tutti, poiché altrimenti avremmo dovuto aver fatto nella nostra vita, tutte le esperienze possibili ed immaginabili per avere una conoscenza onnisciente capace di prevedere tutto e tutti… ma ciò non è assolutamente possibile!

La pratica quotidiana, infatti, ci dimostra tale realtà limitativa del nostro conoscere, questo lo possiamo notare rendendoci conto della continua presenza nella nostra attività costruttiva di contraddizioni, di metafore usate come uguaglianze e del gran numero di pregiudizi utili a prevedere la realtà, che altrimenti temeremo senza tali elaborazioni artificiali. Tale lavoro di processamento attribuzionale, non è altro che una conseguenza della nostra pochezza mentale, e anche se nevroticamente utile a farci sfuggire dall’ansia, che necessariamente emergerebbe per paura del non prevedibile (l’altro), costituisce di fatto l’espressione più evidente della natura ossessiva e difensiva della nostra mente.

Per esempio, se osserviamo le connotazione metaforiche tipiche dell’individuo conoscente (cioè noi stessi), possiamo osservare che il più delle volte, esse perdono la caratteristica d’utilità previsionale (assomiglia, sembra, ecc) e acquistano la valenza attribuzionale disfunzionale costituita dall’uguaglianza.
Ciò avviene per necessità nevrotica (insicurezza, limitazione cognitiva ecc.), in tal caso si è portati ad usare la metafora come identità, sono un... ; siete dei... ecc, in tal modo si è così portati ad identificarsi o ad identificare l’altro con l’oggetto della metafora, ed ecco palesemente ed eclatantemente nascere nella propria conoscenza una distorsione costruttiva della realtà.

Il pregiudizio, difatti, non è altro che una distorsione interpretativa ben articolata composta da concetti e metafore, che vengono applicate sull’altro al fine di categorizzarlo proiettivamente attraverso le proprie categorie. Un errore grossolano che costituisce un’azione abbietta “utile a se stessi” ma fortemente disfunzionale per l’altro. Infatti, all’origine del pregiudizio troviamo sempre, che l’emettitore iniziale dello stesso, sia una persona con forti caratterizzazioni speculative, ove l’aspetto attributivo è generalmente segnato da componenti di personalità facilmente colorate da caratterizzazioni paranoidee, una personalità, dunque, disturbata che trae beneficio dal discredito dell’altro.


Ribadendo, il pregiudizio è un processo cognitivo attraverso il quale utilizzando una griglia di categorie già possedute prevediamo l’altro. E’ chiaro che costruzioni così fatte sono per l’appunto pregiudiziali, proprio perché traggono la valutazione da riferimenti preconfezionati. Talvolta in conseguenza della loro stessa natura, rappresentano realtà comunicazionali dove l’ostilità per l’altro è proprio espressa dal pregiudizio.

In sintesi, essi sono utilizzati per connotare le persone che si conoscono poco o che per la loro natura esistenziale si pongono in modo da non rispecchiare le aspettative dell’altro, con superficialità e con elementi poco certi e indiretti. Pertanto in tale realtà, siffatte persone vengono costruite come temibili non perché lo siano realmente, ma solamente perché non facilmente comprendibili alla massa, che il più delle volte, attraverso il pettegolezzo, diviene preda di una “follia pregiudiziale epidemica”. Una malattia, dunque, che si pone nell’ottica non di una psicologia individuale, ma di una psicologia detta delle masse, ove il singolo individuo esercitante l’azione pregiudiziale, non possiede più una propria valenza costruttiva, un proprio modo di osservare il mondo (il non essere, il non pensare, ma solamente contribuire al mantenimento della “follia” come un gregario strisciante), ma detiene ormai una costruzione costituita dalla distorsione percettiva della massa.

I pregiudizi, quindi, dando una conoscenza rapida ed economica ma fuorviante falsano le previsioni, e come la metafora, costituiscono ostacolo ad una visuale corretta della realtà.

In conclusione, il modo di vedere le situazioni dipende dal tipo di analogie che costruiamo per comprenderle, e il non renderci conto delle limitazioni intrinseche dei nostri processi cognitivi può condurci all’arroganza e a stigmatizzare la differenza (l’altro costruito diverso) nell’ottica della propria visuale rigida e pregiudiziale. Emerge così la presunzione, che ponendosi coattivamente in una prospettiva rigidita, diviene l’unica ed indiscussa artefice di ciò che l’altro “deve” essere. Un’azione questa, che costituendo un’aberrante esigenza personale di osservare l’altro attraverso il giudizio preconfezionato e spesso diffondendolo mediante "contagio", diviene un’azione atta solamente a proteggere nevroticamente se stessi per mezzo dell’annullamento dell’identità dell’altro.
Pertanto la pochezza cognitiva (scarsezza di differenziazione, di integrazione e gerarchizzazione mentale – cioè rigida visuale del mondo) autrice del pregiudizio, si evolve quale arrogante artefice della propria e dell’altrui realtà.

Una aberrante azione proiettiva questa, volta al solo e personale uso e consumo!


Mazzani Maurizio

L'EMOZIONE E L'ADATTAMENTO... Il gusto della vita, la felicità e l'infelicità

Cos'è che costituisce la maglia della vita mentale?
Cos'è che definisce chi siamo ai nostri occhi e a quelli delle persone che frequentiamo?
Cos'è che rappresenta la nostra essenza personale?
Cos'è che decide come reagiamo agli eventi, le nostre sfumature e i nostri colori, cioè l'arcobaleno della nostra vita?


Che può essere se non l'altro sistema di conoscenza, quello chiamato mente emozionale, impulsiva e potente e che il più delle volte si presenta in modo illogico a tal punto da rimanere sconcertante alla stessa mente razionale!


Si, è proprio l'emozione che ci rende piacevoli o non graditi agli altri e a noi stessi, che ci da il gusto della vita, il piacere e il dispiacere, la felicità o l'infelicità. E' essa che decide il nostro atteggiamento verso l'esistenza, e questo attraverso la sua decodifica cognitiva che avviene con un processo d'attribuzione di significato allo stato neurovegetativo che ne è ad essa intrinsecamente collegato.


Che significa ciò?


Semplicemente che ogni emozione, come accennato anche nel precedente articolo, comporta fisiologicamente uno stato ben preciso di condizioni vegetative (per es. nella paura abbiamo: aumento del battito cardiaco, delle frequenza respiratoria, della sudorazione, pallore al viso dovuto a vasocostrizione ecc.), il punto è che tali stati negli animali dotati di consapevolezza, producono sentimenti emotivi coscienti. Col processo d'attribuzione di significato, quindi si costruisce l'emozione corrispondente, ed è essa l'unico risultato che ci porta ad avere i sentimenti che sono per loro natura consapevoli, e chiamiamo paura, amore, felicità ecc.


Le emozioni
, dunque, sono il risultato dei nostri significati percepiti, delle nostre valutazioni e dei nostri pensieri, e informano da una parte il sistema mentale di quando sta per raggiungere o fallire lo scopo della massimizzazione della sua capacità di previsione su se stessi e sull'ambiente (cioè la capacità di poter prevedere in modo esaustivo gli eventi interni ed esterni a noi stessi, il fulcro della nostra sicurezza), dall'altra comunicano lo stato che viviamo di fronte ad un qualsiasi evento. Pertanto la loro intensità dipende da come quest'ultimo è collegato alla previsione che stiamo per effettuare. Le emozioni sono vissute come episodi che passano e vanno via, distinte dai stati d'animo che sono più duraturi poiché prodotti da una maggiore elaborazione mentale. L'amore, che predispone alla cooperazione; la sorpresa che con l'innalzamento delle sopracciglia ci permette di raccogliere maggiori informazioni sull'evento imprevisto; la felicità che ci introduce una maggiore energia e ci rende entusiasti nei confronti di una qualche cosa che si debba svolgere; la tristezza che ci consente di adeguarci alla perdita significativa appena sostenuta, la cui caratteristica principale è la chiusura in se stessi normalmente solo momentanea, ha il fine di consentirci di elaborare tale perdita per riorganizzarci alla vita susseguente; sono tutte esempi di emozioni utili all'adattamento.

La risposta emotiva rappresenta la mobilitazione dell'organismo atto a fronteggiare l'ambiente, il suo fine è quello prettamente di consentirci l'adattamento in senso darwiniano. Altre caratteristiche manifestazioni emozionali ereditate geneticamente, sono la rabbia e la paura che si pongono quali emozioni fondamentali per la sopravvivenza. La loro funzione è preminente, poiché hanno il compito di preservare l'organismo di fronte al pericolo. Predispongono,
pertanto, alla difesa personale attraverso l'attacco e la fuga, e sono quelle che si presentano più invasivamente. Dunque, la loro caratteristica centrale è di rendere pronto l'organismo alla eventuale necessità di dover far fronte all'eventuale pericolo. La loro mobilitazione neurovegetativa (utile atavicamente nei contesti d'emergenza, per es. alla presenza di un animale feroce o ad un potenziale combattimento a corpo a corpo con un nemico), avviene attraverso: -aumento della sudorazione al fine di disperdere il calore eventualmente prodotto; -aumento del battito cardiaco e della respirazione per fornire maggiore flusso di sangue ai muscoli e maggiore ossigenazione; -immissione di adrenalina nel sangue per rendere l'organismo più capace. Quindi pronto ad ogni evenienza; -rilascio di zuccheri nel sangue, per avere a disposizione maggiori risorse energetiche ecc. Tale cambiamento interno dell'organismo avviene per renderci più efficaci di fronte al potenziale pericolo, un tempo ci consentiva di aggredire gli altri animali che ritenevamo di poter vincere o di fuggire in caso contrario. Era qui che l'attività previsionale, quella ereditata geneticamente (la conoscenza innata), controllata dalla mente emozionale, che entrava in funzione per consentirci le risposte più appropriate. Ogni emozione ci predispone ad un determinato comportamento specifico allo stimolo che l'ha prodotta. Si propone di guidarci in una determinata direzione che si è già rivelata utile innumerevoli volte nella nostra storia evolutiva, al fine di consentirci il superamento delle difficoltà della vita umana.

Le emozioni, dunque, guidandoci con saggezza nel percorso evolutivo filogenetico, ci hanno salvato la vita innumerevoli volte. Ora un semplice esempio immaginario per meglio comprendere i concetti esposti; siete in viaggio guidando la vostra automobile:
-osservate la strada e notate che è piena di curve e abbastanza stretta… concludete che non è
sicura;
-a tale conclusione ovviamente regolate la vostra velocità in modo che il percorso non sia per voi
pericoloso; -infatti, accelerate percorrendo i rettilinei e decelerate in prossimità delle curve.
Fin qui tutto bene, niente da dire, avete goduto primariamente dell'intelligenza acquisita geneticamente, quella emotiva che permette di difendere subitaneamente la vita. Ora riflettete: se ognuno di noi non possedesse tale intelligenza sarebbe sempre in pericolo di vita. Infatti nel caso dell'esempio, essa ha prodotto la paura utile affinché non aumentaste eccessivamente la velocità della vostra autovettura, cioè avete evitato di viaggiare ad una velocità troppo elevata, evitando così l'eventuale uscita di strada della vostra automobile con conseguenze facilmente immaginabili. Questo esempio per capire l'utilità della dell'emozione adattiva, ma andando oltre, vediamo che se per ipotesi, anche se difficilmente verosimile voi incontraste un leone nel parco della vostra città, ed anche non possedendo nessuna conoscenza sulla pericolosità di tale animale, la paura ancestrale vi salverebbe costituendo l'input che vi indurrebbe a fuggire al pericolo.
La mente emotiva ha di nuovo lavorato a vostro beneficio.
Ma il problema è proprio qui!
Quanti leoni potreste incontrare nel vostro cammino?

Quanti imprevisti da foresta amazzonica potreste trovare in Via Veneto a Roma o a Piazza Duomo a Milano?
Sicuramente nessuno, a meno che sia fuggito un animale feroce da uno zoo della città o dal circo vicino. Il punto è proprio questo, si possiede un sistema emotivo che non si è sviluppato adeguatamente per interagire con la realtà d'oggi. L’evoluzione emotiva, purtroppo, si è dimostrata più lenta rispetto allo sviluppo legato alla tecnologia e alla civilizzazione. Le emozioni non si sono adeguate al nuovo ambiente ricco di stimoli diversi da quelli atavici che le hanno prodotte. Il processo dell'evoluzione genetica dell’emozione è un processo lento che oggi il più delle volte si dimostra paradossalmente inadattivo. L’ambiente non è più quello di una volta, mentre il nostro sistema emotivo lo è. Per cui quest’ultimo si attiva molto facilmente, e quello che è più sconveniente, è che si attiva anche per generalizzazione e per somiglianza a quegli stimoli che l’hanno prodotto. Infatti, la maggior parte delle paure avvengono di fronte a stimoli che di per se stessi sono neutri, ma che assumono significatività se si sono presentati in contiguità con uno stimolo incondizionato adattivo di paura, essi dunque si condizionano suscitando da quel momento paura o ancor peggio, c'indurranno facilmente dell’ansia fobica.

Per esempio: immaginate di trovarvi ancora oggi con delle paure irrazionali verso alcuni specifici eventi, i quali per altre persone sono invece del tutto normali. Supponiamo che il motivo della vostra fobia possa essere dovuto ad un'educazione patologica, che vi ha costretto a vivere, da piccoli, l’emozione della paura ripetute volte. E questo perché vostro padre vi riprendeva e giudicava con superficialità ogni vostro operare talmente inadeguato ed inopportuno che spesso vi puniva anche con sculacciate, la risposta adattiva che avete provato è stata ovviamente la paura...

Cosa è successo esattamente?


Avete probabilmente vissuto una minaccia al vostro Io fisico, nonché psicologico, la risposta naturale era quindi la paura, ed essendo piccoli e non potendo fare altro, il discorso a riguardo rimane ovviamente molto complesso, ma ciò che a noi interessa per il nostro studio, è semplicemente la generalizzazione della paura a tutto il contesto o a parte di esso.
Di solito in questi casi accade che si sviluppa fobia non solo per l’evento attivante, ma anche per altri elementi che circoscrivono l’evento. Infatti, in questa esperienza, si è creato un legame tra la risposta naturale della paura condizionandola ad uno o più stimoli neutri presenti in quei momenti, oltre naturalmente alla persona di vostro padre: per esempio, a un tipo di atteggiamento, a un tipo di espressione facciale, eventualmente anche al luogo dove la misfatta avveniva ecc. Il punto è che tali condizionamenti, in altre parole i primari schemi cognitivi, rappresentando la conoscenza iniziale, vi si ripropongono con estrema facilità nell’età adulta poiché vissuti con forte intensità e/o per ripetute volte. Infatti, oggi sentite ansia di fronte a stimoli neutri che hanno una qualche relazione o somiglianza con lo stimolo primordiale, per esempio:
- una stanza che ricordi in qualche modo quella originaria;

- altre persone che vi fanno tornare in mente quella di vostro padre;

- un atteggiamento particolarmente rievocativo ecc., ecc.

Un esempio esaustivo anche se banale è la fobia dei cani: se avete vissuto una situazione spiacevole con un cane quando eravate piccoli è facilmente possibile che tale realtà si ribalti permanendo nell'età adulta, attraverso l’induzione di una fobia generalizzata a tutti i cani.
Con simili esperienze, quindi, vi potreste trovare a riprovare ansia appena costatate la presenza di uno stimolo simile a quello originario che vi aveva indotto la reazione di paura. Il condizionamento produce schemi di risposta emotiva di adattamento che vengono riattivati, come già detto, per contiguità a stimoli incondizionati simili a quelli originari.

Ora risulta naturale una domanda?
Perché ci troviamo a vivere tali emozioni il più delle volte con spiacevolezza, inopportunità ed esagerazione?

Il perché ve lo svelo subito, riguarda proprio il fatto che utilizziamo un apparato emotivo ancestrale per fronteggiare dilemmi postmoderni.
Per spiegare meglio tale concetto, uso le emozioni più spiacevoli, quelle che gestiscono l’emergenza dovuta a situazioni di lotta o di fuga. Nel caso delle emozioni di paura, e di collera, che sono reazioni condizionate di ansia. Qualsiasi stimolo neutrale, come nell’esempio precedente, che colpisca un individuo all'incirca nel momento in cui sia evocata una reazione innata di paura (una di quelle di cui ho parlato precedentemente, vale a dire quelle utili a gestire in tempo reale le emergenze della vita) acquista il potere di evocarla. Se la paura insorta nella situazione originaria è molto intensa, o se il condizionamento si è ripetuto per un buon numero di volte, la paura condizionata si stabilizzerà instaurando nella persona una paura nevrotica (dico nevrotica perché non più consona al contesto attuale, e che produce immobilizzazione e mancanza d'energia). In tal situazioni la risposta di paura ha una forte probabilità che possa estendersi, costituendo la reazione più veloce di fronte a stimoli che si avvicinano per caratteristiche allo stimolo condizionato. Di fronte a questa realtà appare dunque chiaro, che la loro facile insorgenza di fronte ad una moltitudine di situazioni emotivamente stimolanti, rappresenta un grosso inconveniente. L’incremento del battito cardiaco o della sudorazione per esempio, avviene anche per stimoli emotivi modesti e profondamente differenti con la minaccia e l'aggressione tipiche risposte d'adattamento. Ne consegue che queste reazioni condizionate si attivano, anche con variazioni dell'ambiente che ci impegnano anche se solo leggermente, cioè situazioni dove la nostra capacità previsionale è ridotta al minimo o erronea o addirittura mancante (per es. un incontro con una persona che abbiamo giudicato importante o che non conosciamo affatto; un ambiente di cui non possediamo nessuna conoscenza; in concomitanza di un semplice esame ecc., ecc.). La subitaneità, la mancanza del controllo razionale e volontario, fanno sicché, queste risposte adattive, siano purtroppo il più delle volte inopportune e malaccorte. Questa rapidità è essenziale osservandola dal punto di vista adattivo, perché consente di reagire subitaneamente evitando di perdere tempo in inutili elaborazioni razionali, ma diventa, ripeto, superflua o addirittura fastidiosa nei casi ove ciò non serve più.

Mazzani Maurizio

sabato 5 giugno 2010

Perché ci ammaliamo di quelle malattie chiamate Psicosomatiche?

Le emozioni come prodotti conseguenti alla stimolazione ambientale e sociale, quindi il processo di adattamento, possono influire se negativi, notevolmente sull’insorgenza di malattie psicosomatiche.
Le somatizzazioni quali ad esempio la gastrite, l'asma, la colite ecc., avvengono con una azione sull'organo di una tensione emotiva che agisce direttamente attraverso l'innervazione dello stesso.
Sono i processi di adattamento che comportando uno stato ben preciso di condizioni vegetative: per es. nelle condizioni di lotta o di fuga, abbiamo l'aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria ecc., che vengono iperattivati in concomitanza di stress.
Le emozioni che paradossalmente da adattive diventano disadattive.
Una paura che diviene ansia, una irritazione che diventa rabbia, e/o un organo viscerale che viene iperattivato.
Mentre le vere e proprie malattie psicosomatiche avvengono per via indiretta attraverso l'abbassamento dell'organizzazione difensiva intrinseca in ogni organismo.
Tale organizzazione è preposta alla vigilanza immunologica, ed ha dunque una valenza importante, se depressa, nell'induzione e nel decorso delle malattie psicosomatiche, da quelle classiche, fino ad arrivare all'estremo delle malattie neoplastiche.
Essa è in netto collegamento, se stimolata, alle condizioni ambientali in cui si trova.
Allora ci troviamo di fronte patologie indotte dall'eccessivo stress a cui l'individuo viene sottoposto.
La domanda allora viene spontanea: fino a che livello elementi psicologici possono influire nella insorgenza di malattie psicosomatiche?
E’ oggi ormai più che noto che studi di recente formulazione consolidano l’ipotesi che la malinconia, la depressione, la paura, le catastrofi personali e i drastici cambiamenti nella propria vita (perdita di un lavoro, separazione dal proprio coniuge, la morte di un proprio caro ecc.), e quindi tutto ciò che stimola negativamente la propria emotività generando stress, siano collegate con le affezioni psicosomatiche.
Le sperimentazioni nell’uomo e nell’animale, ci hanno dimostrato, che è possibile influire sulla genesi e sul decorso addirittura delle affezioni cancerose, e che le difese proprie dell’organismo possono essere determinanti in modo inequivocabile dalla reazione del sistema nervoso.
Si può dunque aggiungere che l’espressione emozionale, risulta essere espressa per vie comportamentali, con tensione fisiologica scaricata rapidamente (azione di aggressività dirette verso l’esterno) o intrapsichico (le malattie mentali: nevrosi, psicosi, ecc.) o inibita e repressa a tali livelli e, quindi, scaricata somaticamente.
E’ bene precisare che le modalità di scarica dell’emozione sono legate a dei propri stili di reazione psicofisiologica.
A questo punto lo sviluppo di una malattia psichiatrica o di un disturbo somatico, viene a dipendere sia dalla frequenza ed intensità delle stimolazioni emozionali negative, a cui il soggetto viene sottoposto, sia dal suo stile personale con il quale reagisce agli eventi negativi, geneticamente e/o modificato con l’apprendimento.
Ma che succede realmente nel sistema nervoso e nel sistema immunitario quando un individuo è sottoposto a stress continuati?
Essendo ormai chiaro il ruolo del sistema nervoso centrale nella regolazione dell’equilibrio fisiologico dell’organismo a svariati livelli. Chiarezza ottenuta da sempre più frequenti studi sperimentali su animali da laboratorio, i quali confermano l’ipotesi che lo stress, attraverso le modificazioni dei sistemi endocrino, immunitario e vegetativo, influenzano la induzione di malattie psicosomatiche.
La condizione psichica come già detto, influisce sulle più svariate malattie organiche, quali ad esempio: la colite ulcerosa, l’ulcera gastroduodenale, la leucemia ecc., fino ad arrivare a favorire l’insorgenza del cancro!
I più avranno sicuramente fatto caso al fatto che sotto stress si è più vulnerabili ad ogni malattia da virus e da batterio… perché?
E’ il sistema immunitario che sotto stress diminuisce la sua efficacia difensiva. Le difese preposte a difendere l’organismo dalle malattie diminuisce e quindi lo rende più vulnerabile. E’ proprio tale abbassamento delle difese immunitarie che fa sicché diminuisca anche la sorveglianza su eventuali proliferazioni cellulari atipiche ed afinalistiche oggetto delle affezioni neoplastiche. Insomma, in tali circostanze, il sistema immunitario viene meno al compito genetico al quale è preposto, che è quello di distruggere le cellule mutate in senso neoplastico e riconoscere le cellule proprie da quelle non proprie.
Che accade esattamente?
Si può dire, che la proliferazione cellulare in determinate zone dell’organismo va per conto suo, perdendo il controllo centrale… ed ecco appunto che potrebbe insorgere il cancro come malattia psicosomatica.
Pertanto è chiara la correlazione tra sistema immunitario, S.N.C. e stress.
Il sistema immunitario ribadisco, non ha solo la funzione anti-infettiva, ma sostanzialmente è preposto alla sorveglianza dei materiali macromolecolari prodotti sotto il controllo genetico. Detto più semplicemente, esso con la maturazione acquisisce quelle funzioni che le sono proprie geneticamente, rappresentate dalla capacità di riconoscere ciò che è proprio all’organismo e ad individuare e successivamente ad eliminare tutto ciò che viene riconosciuto come estraneo all’organismo stesso (per capire meglio, basta ricordare i rigetti nei trapianti d’organi, infatti tali trapianti sono resi possibili solo da forti farmaci immuno-depressivi proprio per far abituare l’organismo alle cellule estranee, ma comunque compatibili, poiché altrimenti sarebbe impossibile come avviene in taluni casi di trapianti). Questa sua funzione immuno-sorvegliante è di vitale importanza all’organismo.
In sintesi si può dire che risiede, dunque prorprio in questa funzione sopradescritta, se depressa, la possibilità dell’insorgenza di malattie infettive, e la possibile genesi di una proliferazione cellulare sdifferenziata (neoplasia).

Maurizio Mazzani

Che significa conoscenza di sè-con-l'altro, cosa sono i SMI

La conoscenza di Sé, secondo la teoria evoluzionista, la psicologia dello sviluppo e la Teoria della Mente, costituisce l’espressione di uno tra i bisogni primari dell’uomo, un percorso che possiamo dire biologico. Liotti G. afferma: “anche i bisogni epistemici della conoscenza di Sé-con-l’altro vanno considerati tra le motivazioni primarie dell’uomo”.

Spiegando più dettagliatamente, la conoscenza di Sé-con-l’altro avviene primariamente nell’interscambio genitoriale, dove vengono attivati i Sistemi Motivazionali Interpersonali "Sistemi Motivazionali Interpersonali" (SMI), che rappresentano la primaria conoscenza geneticamente preposta all’interazione, sia nel bambino sia nelle figura d’accudimento "figura d’accudimento" .

Gli SMI, che sono messi in azione per primi, sono quelli reciproci dell’attaccamento per il bambino e quello dell’accudimento per la persona adulta, una sorta di scambio complementare utile alla crescita del piccolo di uomo che - più di ogni altra specie animale, compresa quella di cui fa parte, l’antropomorfica - necessita di un periodo lungo di protezione. Se tale interscambio, che ha radici genetiche adattive, viene meno, ecco che si affaccia la possibilità d’incombere in età successive in problematiche interpersonali o ad una vera e propria psicopatologia.


Bowlby afferma, che il bisogno del bambino di avere una figura protettiva accanto, derivi dal primario bisogno di origine filogenetica costituito dalla difesa, da parte di una figura adulta, dai predatori.. Tale concetto evoluzionistico arricchito dalla visuale costruttivista, ci suggerisce che il piccolo di uomo ha bisogno di una figura d’accudimento “la base sicura”, che gli consenta, mantenendo contemporaneamente lo stato intrasistemico (dopo le perturbazioni prodotte dall’ambiente) in equilibrio, l’acquisizione di nuove conoscenze favorendone l’esplorazione.


Tutti vengono al mondo con l’attesa di un attaccamento sicuro, e se tale anticipazione, programmata geneticamente, non si verifica, si può entrare in una fase di attaccamento disfunzionale, dove le risposte ai rapporti interpersonali sono all’insegna di stili cognitivi patologici come: l’immunizzazione, l’evitamento" l’ostilità, invece dell’esplorazione attiva tipica dell’attacamento funzionale, quello sicuro.
Queste modalità iniziali frutto dell’interazione con le figure genitoriali, costituiranno dei veri e propri stili interpersonali che guideranno nella vita l’adolescente prima e la persona adulta poi. La rappresentazione di Sé-con-l’altro formatasi nell’infanzia pertanto, costituisce il substrato al quale non è possibile non fare riferimento quando si parla di problematiche interpersonali.

Se la reciprocità genitoriale primaria, sarà stata improntata ad uno scambio funzionale, avrà necessariamente offerto la possibilità di costruire una rappresentazione mentale di Sé-con-l’altro unitaria, altrimenti si avrà una scarsa o assente unità di coerenza rappresentativa di Sé, cioè il modello operativo interno (MOI) – le rappresentazioni di Sé chiamate da Bowlby Internal working models, sarà all’insegna dell’insicurezza o addirittura della disorganizzazione.
Pertanto, è proprio la tipologia del MOI, che si è formato durante l’interazioni di attaccamento, che deciderà se l’individuo che ne verrà fuori, sarà o no adattato o se avrà o meno problemi psicologici o se in estremo svilupperà una psicopatologia.

Mazzani Maurizio

venerdì 4 giugno 2010

L’ADOLESCENZA... un viaggio tra spazio e tempo

Il tempo e lo spazio sono le più comuni categorie che caratterizzano il periodo adolescenziale; un periodo questo contrassegnato dal passaggio da un luogo ad un altro (Baldascini 1995), e dove la transizione costituisce per l'adolescente il classico conflitto dell'età, che consiste nell'impossibilità di potersi collocare in una dimensione ben precisa, quella adulta o ancora quella infantile. Pensate all'adolescente come quel bambino che viaggia verso l'età matura, e che in tutto quel viaggio non riesce ad identificarsi in nessuna dimensione in particolare, ma semplicemente essere un viaggiatore. Egli appena oltrepassa la linea di demarcazione dell’infanzia entra in una zona che si potrebbe definire “terra di nessuno”, uno spazio questo che è sospeso tra presente, passato e futuro (ib) e che Frankenstein (1966) (in Y. Cohen 1991) chiama “double negation” proprio per la sua peculiarità che è all’insegna dell’assenza di definizione.

L’adolescente dunque, non può essere definito bambino ma nemmeno adulto.

La realtà adolescenziale è proprio questa… una dimensione esistenziale caratterizzata da una specie di mancanza d’identità, e chi è adolescente non sa proprio dove collocarsi. Una realtà conflittuale per eccellenza, che va dal sociale allo psicologico per soggiacere nel fisiologico.

L'adolescente, infatti, ha appena vissuto il trambusto ormonale che ha prodotto il disagio conseguente alla perturbazione caratteristica della pubertà.
Essa si presenta invasiva cambiando il fisico, ma senza che la psiche abbia avuto il tempo di adeguarsi opportunatamente. Il giovane intorno ai 12/13 se femmina e i 14/15 se maschio, si trova ad aver raggiunto la capacità procreativa, ed è perciò fisiologicamente un adulto, ma nello stesso tempo non è in grado, dal punto di vista psicologico, di gestire tale maturità. Il “bambino” si trova ad avere un corpo adulto ma desidera inizialmente ancora spesso rifugiarsi nella protezione offerta dalla famiglia. Talvolta, infatti, l’adolescente vorrebbe proprio opporsi a tale cambiamento, costituito da trasformazioni troppo rapide e da ritmi troppo intensi.

Un passaggio veloce, questo, che va dalla preadolescenza all’adolescenza, un momento caratterizzato dall’accelerazione della crescita fisiologica e somatica.
Una realtà questa, distinta da forti conflitti incentrati inizialmente sul fisico e sulla sfera sessuale. I primi possono riguardare la percezione del Sé corporeo, come per esempio la comparsa dei caratteri sessuali secondari, l’ansia e la preoccupazione relativa alla dimensione e al peso del proprio corpo ed ad una sua eventuale disarmonia. I secondi riguardano la propria identità sessuale, e spesso sono espressi attraverso un’attenta osservazione dell’altro sesso, mossa da una ansiosità che trova la sua espressione in una sorta di misurazione dei propri difetti e, forse per confessare la propria incerta identità sessuale. Inoltre, si possono incontrare conflitti sulla possibile attività masturbatoria, che pur rappresentando un fenomeno che può favorire un adeguato sviluppo della persona (Canestrari R., 1990), può talvolta, invece, essere vissuta all’insegna di una spesso silenziosa conflittualità interiore.

Anche a livello mentale l’adolescente è soggetto ad un processo trasformativo complesso ed estremamente importante, per quanto poco visibile e meno spettacolare di quello corporeo. La maturazione delle capacità intellettive segue un cammino che ha un fondamento psicogenetico (Piaget J., 1981, 1989).
L'individuo sviluppa la sua intelligenza attraverso l’iter biologico costituito dalla maturazione organica del cervello e l'interazione di quest'ultimo con l'ambiente (Bandura A. 1981), il quale deve essere sufficientemente stimolante per permettere che la sua intelligenza si sviluppi adeguatamente (Canestrai R., 1990). Lo sviluppo psicogenetico dell’intelligenza raggiunge la maturità proprio con l'adolescenza, ciò avviene con la comparsa del pensiero astratto e simbolico, con la formazione della personalità e del desiderio dell'inserimento affettivo ed intellettuale nel mondo degli adulti (ib). L'adolescente, dunque, possiede tutte le caratteristiche del pensiero anticipatorio, quello che ha la caratteristica del "possibile", il quale gli permette di iniziare a pensare al futuro e a tutto ciò che lo caratterizza, di stendere teorie su se stessi e sul mondo, ecc. E’ il momento della nascita della propensione alla discussione, cioè la forma dialogica della problematizzazione, che lo induce a costruire o ad accettare, entusiasticamente, concezioni di vita riformatrici, che sono spesso solamente una mera illusione scevra da ogni ponderazione di difficoltà concrete. Tutto ciò è reso possibile proprio dalla presenza dell’intelligenza astratta che gli consente di poter subordinare il reale al possibile (ib). Egli possedendo tutti gli aspetti del pensiero adulto desidera anche metterli in pratica. Ma questo non gli risulta facile poiché, anche se possiede un'intelligenza razionale ben sviluppata, nello stesso tempo non gode di una emotività altrettanto matura, per cui ciò è di ostacolo ad esistere in modo ben definito.

L’adolescente si trova sia nella sfera personale nonché sociale ad avere serie difficoltà d’affermazione di Sé. Egli vive, di fatto, in una marginalità sociologica, che lo posiziona sia fuori del gruppo degli adulti sia da quello dei fanciulli. La penalità di tale condizione non può che essere altro che una forte incertezza, che di fatto ostacola proprio il senso della sua identità.
Afferma Erikson E. (1974): “ una delle coordinate indispensabili dell’identità è il ciclo vitale in quanto nell’adolescenza l’individuo sviluppa i requisiti di crescita fisiologica, di maturazione mentale e di responsabilità”. La strutturazione del Sé, tappa fondamentale per avere una percezione completa ed integrata di se stessi nel mondo, è, pertanto, spesso ostacolata da difficoltà interazionali micro e macro-sociali. Ciò diviene così il presupposto per una possibile vulnerabilità alla psicopatologia o comunque a potenziali difficoltà d’adattamento. L'adolescente dalla dipendenza deve raggiungere l'autonomia, e per tale scopo deve elaborare costruttivamente i vecchi schemi di pensiero infantili, per rompere gli obsoleti legami che tali schemi rappresentano. Con l’adolescenza dovrebbe accadere spontaneamente la messa in crisi delle certezze dell’età infantile: la certezza circa l’onniscenza e l’onnipotenza degli adulti, la certezza sulla univocità della realtà esterna, la certezza sulla semplificazione della vita interiore e la certezza sulla esistenza dello schema di riferimento esterno come guida stabile e sicura (Canestrari R., 1984), e conquistare, usando la metafora di Baldascini (1995), uno:
- spazio fisico (il corpo);

- spazio sociale (la mobilità tra i principali sistemi di riferimento: famiglia, pari,
adulti, l’abitare in ambiti collettivi diversi e inediti)
;
- spazio mentale (lo sviluppo del pensiero astratto);

- spazio psicologico (la costruzione del Sé).

E’ la conquista della libertà... la libertà di scoprire e abitare altri spazi, spazi interattivi differenti da quello familiare.
Ecco qui il perché del bisogno di legami al di fuori della famiglia, con il gruppo dei pari, un esempio è l'amico coetaneo dello stesso sesso con il quale instaurare un’amicizia profonda, conquista iniziale che poi porterà alla ricerca di un partner d'amore. Di fatto, se ci mettessimo ad osservare un adolescente, noteremo chiaramente nel suo comportamento, la coesistenza di impulsi verso l'autonomia con l'inerzia delle esperienze infantili. Tale realtà causa un certo tipo di comportamenti e i loro opposti (forti ribellioni alternate a passive sottomissioni; presenza di forte iniziativa facilmente seguita da forte pigrizia; ecc.) Insomma, tutto questo indica chiaramente nel conflitto adolescenziale la simultanea presenza di un forte desiderio ad andare avanti verso l'autonomia, ed un bisogno altrettanto forte di tornare indietro verso la dipendenza. Tale periodo, dunque, rappresenta un passaggio decisivo e particolarmente importante, poiché costituisce l’evoluzione che va da una specifica dimensione esistenziale ad un’altra completamente diversa e più complessa.

Mazzani Maurizio

Stress, cancro e personalità

L'attuale ricerca sulle correlazioni tra processi psichici e il cancro, pone l’accento sulla tipologia organizzativa della conoscenza, per individuare quali caratteristiche psicologiche possano essere elemento distinguibile, che ponga in risalto una maggiore vulnerabilità alla malattia tumorale.
Fondamentalmente si tratta di un'ipotesi per cui certe caratteristiche psicologiche, in forza del legame mente-corpo, sarebbero dei fattori predisponenti l'insorgenza della malattia cancerosa e del suo decorso. Tale angolazione vede gli eventi di varia natura, ma con ampi riflessi psicologici, quali fattori informazionali capaci di poter influenzare le attività fisiologiche come quelle immunitarie, ed intervenire quindi nella formazione e nell’evoluzione del processo tumorale. L’angolazione in questione, pone come aspetto centrale l’evolversi dell’ottica informazionale, significando che il dato “informatico” è osservato in una visuale integrativa sia in verticale che in orizzontale. Mente e corpo e ambiente in “sinergia adattazionista” in un circolo informazionale di tipo bidirezionale mente-corpo-mente (trasmissione verticale) e individuo-ambiente (trasmissione orizzontale). L’informazione deve essere, però, concepita non in termini semplicistici d’input e output, ma in termini autopoietici dunque circolari, dove l’organizzazione del sistema vivente (chiuso) è finalizzata ad auto-mantenersi modificando in senso adattivo (apertura) solo la struttura per compensare le perturbazioni dovute all’ambiente al fine di mantenere intatta la propria organizzazione (H. Maturana e F. Varela 2004). Espresso in termini semplici, ciò significa che l’individuo, nel suo processo adattivo, di fronte alle molteplici stimolazioni (informazioni) provenienti dal ambiente, cerca sempre di mantenere coerente la personale visuale di se stesso e del mondo. Per fare questo, l’uomo impiega la sua attività cognitiva e comportamentale al fine di fronteggiare le difficoltà di vita in chiave di problem solving efficace.
Le informazioni rappresentano l’anello mancante, che trascende l’ottica dualistica cartesiana, ponendosi quale trait d’union tra i due mondi: corpo e mente, ormai separatamente indistinguibili. Il punto cruciale è che la natura offre all'individuo, a parte le patologie organiche ereditarie, tutti gli elementi utili alla vita, sebbene debbano esistere perlomeno, ambientalmente parlando, simili condizioni che ne hanno forgiato l’edificazione, altrimenti il sistema può facilmente fallire causando così l’interruzione del flusso armonico informazionale base della vita stessa.
La neurochimica ci dice, che sia il cervello elettrico quanto quello chimico sembrano fondersi in un tutto informazionale basato su peptidi, ormoni, fattori, leganti di proteine e sulla specificità recettoriale. Si noti che è proprio in virtù di quest’ampia rete psicosomatica recettoriale, che un’esperienza può rimanere scolpita in una memoria estesa a tutto il corpo e non solo nel cervello, afferma Candace B. Pert (2005): “La scelta fra ciò che diventa un pensiero emergente a livello di coscienza e ciò che di resta uno schema non digerito, sepolto in profondità nel corpo, viene mediata dai recettori”.
I recettori peptidici, la base informazionale dell’emozione, sono presenti, dunque, in tutto il corpo ed è dovuta proprio ad essi la regia endocrina, nervosa e immunitaria. Tali recettori controllano lo spostamento e la migrazione dei monociti, quindi la salute generale dell’organismo e, inoltre, comunicando con i linfociti chiamati cellule B e cellule T, consentono così la vigilanza contro agenti patogeni di vario genere. Le cellule immunitarie, affermano le moderne neuroscienze, sono anche atte a produrre peptidi capaci di controllare l’umore e l’emozioni, pertanto l’intero organismo.
In sintesi, l’endocrinologia, l’immunologia e il SNC tradizionalmente separati con i rispettivi organi (cervello, ghiandole, milza, midollo osseo e linfonodi), sono in realtà uniti in sinergia multifunzionale, mediante i portatori d’informazioni conosciuti con il nome di neuropeptidi. Ci troviamo di fronte ad un sistema integrato, una rete informazionale la cui ragion d’essere è l’elaborazione delle informazioni, dove avviene uno scambio bidirezionale ininterrotto di dati che lega cervello, corpo e comportamento sotto la vigilanza emotiva.
La visuale proposta, che consideriamo globale ed evoluzionistica, si distacca da quella tipicamente meccanicistica Newtoniana e riflessologica, dove il corpo è visto in termini d’energia e di materia, per collocarsi in un mondo psicosomatico informazionale di tipo quantico. In tale ottica la patologia tumorale, alla stregua d’ogni malattia, è concepita quale risposta attiva di tipo adattivo anche se paradossale, insomma, la risposta cancerosa è vista alla maniera di una qualsiasi manifestazione patologica psicosomatica o psichiatrica.
Studi clinici hanno dimostrato un evidente rapporto tra differenti modalità di risposta alle situazioni avversive, e incremento della vulnerabilità a malattie somatiche fino al cancro. Esiste, dunque, una visuale multicausale nella spiegazione etiopatogenetica delle neoplasie.
E' opportuno, quindi, considerare il tumore come la risultante di un processo coinvolgente tutto l'organismo, e per organismo s’intende l'insieme biopsicosociale dell'individuo. In conformità a tale visuale, è bene tener presente le esperienze che conducono alla genesi della personalità, e all'interferenza dei fattori ambientali e alla modalità di risposta psicofisiologica specifica ad ogni individuo. Molti studi si sono fatti nella direzione di comprendere come la dimensione costruttiva degli eventi stress di vita, e in particolar modo dell’evento stress/diagnosi di cancro, influiscano sulla modalità di risposta alle cure oncologiche, al decorso e alla qualità di vita del paziente canceroso. E’ il processo modulare sito nell’emisfero cerebrale sinistro costituito dall’interprete, afferma M. Gazzanica (2007), che decide la storia che ci raccontiamo quando concettualizziamo l’esperienza. Sono i significati personali, segno distintivo e costituente la coerenza del sistema mentale, cioè il personale modo di osservare se stesso e il mondo come già asserito, che decide il valore stressogeno attribuito agli eventi nocivi.
Ricerche effettuate su tale argomento sono state quelle realizzate da Pancheri/Biondi (in Med. Psicosom. 1981). Tali ricerche, realizzate utilizzando diversi questionari per misurare l’implicazione degli avvenimenti stressanti in medicina psicosomatica, hanno evidenziato che il peso dato agli eventi era proprio in relazione alla tipologia organizzativa della propria conoscenza, a come quest’ultima si sia cristallizzata nel corso della vita, in relazione a reciprocità adattive o disadattive, in primis, di tipo genitoriale. Ecco qui che i fattori "conoscitivi", le proprie idee, i propri pensieri e schemi, acquistano una grande importanza nel decidere se un avvenimento, anche traumatico, avrà effetto sul l'equilibrio psicofisico dell'individuo.
E' proprio la psicologia oncologica che si occupa dei fattori mentali come con-causa delle neoplasie. In ragione del legame mente-corpo, si sono compiute le più svariate ipotesi sul possibile ruolo delle caratteristiche psicologiche come fattori predisponenti la malattia tumorale. Tale disciplina, oltre ad occuparsi di tali predisposizioni, segue ogni fase della malattia cancerosa cercando di identificare le varie reazioni del paziente alla stessa.
Una ricerca prospettiva su pazienti con cancro alla mammella, mostra che il tipo di reazione psicofisiologica, nei confronti della malattia, è differente da paziente a paziente. Tale reazione è osservata come conseguenza della modalità conoscitiva posseduta dall'individuo con la quale costruisce l'evento malattia.
Come si è già detto è il sistema di conoscenza, i nostri costrutti, i nostri schemi, le nostre credenze che decidono la nostra reazione agli eventi della vita. Le nostre reazioni psicofisiologiche non sono altro che il sottostrato biochimico che viene a conformarsi a seguito di un evento interno o esterno costruito dal soggetto, insomma la mobilitazione neurovegetativa che fa seguito all'emozione. Sono proprio le sostanze biochimiche che costituiscono il substrato fisiologico delle emozioni, la base molecolare di ciò che esperiamo sotto forma di sentimenti, sensazioni, pensieri e impulsi. Tale base chimica informazionale costituente il fondamento della regolazione emozionale, se non è ostacolata si ottiene l’omeostasi ossia l’equilibrio cioè la salute, altrimenti viene meno la loro azione regolatrice e integrativa di sistemi, organi, e cellule in un movimento armonico, comportando ciò disfunzionalità e perdita di controllo a vari livelli.
E’ il nostro modo di conoscere e costruire dunque, che rappresenta il fulcro del nostro benessere, in quanto è l'artefice della mobilitazione fisiologica dovuta all'emozione. Una costruzione degli eventi disadattiva e disfunzionale, perciò a contenuto irrazionale, rallenta l'ottenimento dei nostri obiettivi e, la frustrazione che ne deriva sottende iperattivazioni biologiche patologiche di elementi biochimici nocivi. Sono proprio queste che favorirebbero l'induzione di malattie psicosomatiche in generale, come anche l’abbassamento delle difese immunitarie.
Gli aspetti psichici per mezzo del loro correlato neurale nel S.N.C., hanno la possibilità di attivare e modulare i processi biologici. L’espressione delle emozioni è sempre legata a un flusso informazionale peptidico nel corpo come già asserito, ne consegue che la repressione cronica delle emozioni sfocia in un disturbo grave nella rete psicosomatica. Spigel et. al., (in Candace B. Pert 2005) hanno dimostrato come la facilità a esprimere emozioni quali ira e dolore, possa incrementare le possibilità di sopravvivenza nei malati di cancro. Le cellule killer, preposte alla distruzione continua del non-self tumorale, coordinata da vari peptidi del cervello e del corpo e dai loro recettori specifici, possono talvolta, in concomitanza a una riduzione o addirittura a un blocco del flusso emozionale, perdere la loro funzione primaria.
Perché integrazione emozionale è salute per l’organismo
Nella malattia tumorale le emozioni, con la loro azione integrativa a livello endocrino, immunitario e nervoso, occupano un posto privilegiato nel tentativo di spiegare il cancro come una malattia psicosomatica.
E’ noto che le esperienze primarie d’attaccamento infantile, influenzano il funzionamento fisico e mentale dell’individuo nell’intero corso della sua vita. La reciprocità infantile ha effetti profondi sulla maturazione dell’abilità del bambino nell'autoregolazione emotiva, dunque sulla sua abilità di gestione dello stress.
Ricerche su primati hanno evidenziato modificazioni nella funzionalità immunitaria, in relazione ad una prolungata separazione dalla madre o di altre disfunzionalità avvenute nel periodo infantile, che sembrerebbe permanere in età adulta e favorire la vulnerabilità dell'organismo alla malattia.
In uno studio retrospettivo sui precursori psicobiologici di malattia, condotto su un ampio campione di soggetti da C. B. Thomas e dai suoi collaboratori, è emerso che una mancanza d’intimità e uno scarso coinvolgimento emotivo con i genitori, durante i primi anni di sviluppo, si correli a una maggiore incidenza di cancro a distanza d’anni. L'indagine della Thomas, rappresenta un esempio di studio prospettivo, che ha valutato gli aspetti riguardanti le esperienze emozionali precoci, e le modalità della relazione d’attaccamento.
Pare, inoltre, che carezze e contatto fisico regolare e prolungato, incida sulla regolazione immuinitaria non solo mediante un incremento di regolazione emotiva, ma anche attraverso l’aumento di produzione di sostanze neurochimiche quali gli oppiodi endogeni e l’ossitocina, i quali, come è noto, sono sostanze che hanno la facoltà di rallentare la crescita neoplastica. Sembra, dunque, ormai pù che provato da studi in diverse direzioni, che relazioni positive siano, in un certo qual senso, dei fattori protettivi, ed il contrario rappresentino una condizione predittiva di possibile malattia.
Che cosa intendere con “stress” come cofattore patogenetico
Il sistema nervoso, durante il suo lavoro, produce ormoni i quali devono essere riassorbiti. Il guaio nasce quando, dopo un eccessivo e prolungato lavoro di questi, si ha nel circolo sanguigno eccessive quantità di neurotrasmettitori, i quali devono essere eliminati con altro lavoro… ed ecco qui la stanchezza caratteristica dovuta allo stress, ciò perché la loro eccessiva presenza costituisce tossicità per lo stesso organismo. L’adrenalina per esempio, tipico ormone prodotto dalle ghiandole surrenali a seguito di eventi allertanti, preoccupanti, cioè l’ormone che predispone alla lotta e alla fuga, se è presente in quantità elevate diventa tossico e disorganizzante per tutto l’organismo. Se per sfortunati contesti di vita proviamo ripetutamente emozioni negative che ne stimolano la produzione, vediamo che l’organismo, con il passare del tempo, si debilita perdendo capacità di prontezza fisica e di attenzione mentale.
Sono i processi di adattamento che comportando uno stato ben preciso di condizioni vegetative, per es. nelle condizioni di pericolo abbiamo l'aumento del battito cardiaco, della frequenza respiratoria ecc., che vengono iperattivati in concomitanza di stress. Le emozioni che paradossalmente da adattive diventano disadattive. Una paura che diviene ansia, una irritazione che diventa rabbia, e/o un organo viscerale che viene iperattivato.
I ricercatori hanno tutti evidenziato gli effetti nocivi di un’affettività negativa sui diversi processi fisiologici, in particolare sul funzionamento neuroendocrino, autonomo e immunitario.
Sistema immunitario e tumore
Le malattie psicosomatiche avvengono per via indiretta attraverso l'abbassamento dell'organizzazione difensiva intrinseca ad ogni organismo. Tale disposizione è preposta alla vigilanza immunologica, ed ha dunque una valenza importante, se depressa, nell'induzione e nel decorso delle malattie psicosomatiche, da quelle classiche, fino ad arrivare all'estremo delle malattie neoplastiche. E’, quindi, l’apparato immunitario, il sistema preposto alla vigilanza sulla produzione continua di cellule da parte dell’organismo, e quando depresso perderebbe tale controllo, lasciando tale proliferazione fine a se stessa, ed ecco il tumore. Il sistema immunitario, come è noto, non ha solo la funzione anti-infettiva, ma sostanzialmente è preposto alla sorveglianza dei materiali macromolecolari prodotti sotto il controllo genetico. Detto più semplicemente, esso con la maturazione acquisisce quelle funzioni che le sono proprie geneticamente, rappresentate dalla capacità di riconoscere ciò che è proprio all’organismo e ad individuare e successivamente ad eliminare tutto ciò che viene riconosciuto come estraneo all’organismo stesso (per capire meglio, basta ricordare i rigetti nei trapianti d’organi, infatti tali trapianti sono resi possibili solo da forti farmaci immuno-depressivi proprio per far abituare l’organismo alle cellule estranee, ma comunque compatibili, poiché altrimenti il trapianto sarebbe impossibile).
In sintesi si può dire, che risiede proprio in questa funzione sopradescritta, se depressa, la possibilità dell’insorgenza di malattie infettive, e la possibile genesi di una proliferazione cellulare sdifferenziata (neoplasia).
Predisposizione alla malattia e la vulnerabilità individuale
Abbiamo affermato, che la patologia cancerosa è studiata con un’ottica d’osservazione biopsicosociale, intendendo che la sua eziopatogenesi va ricercata in più fattori, quali quelli biologici, psicologici e sociali.
Punto fondamentale è il concetto di vulnerabilità individuale o di predisposizione alla patologia, secondo cui l'individuo sfocia in un disturbo mentale o somatico, quando l'influenza d’eventi stressanti supera la capacità di fargli fronte. La vulnerabilità individuale in ciascun momento della vita d’ogni individuo dipende dal suo bagaglio conoscitivo, frutto della sua predisposizione genetica all’interazione e dell’intera storia della sua vita fino a quel momento. Ci ritroviamo di nuovo di fronte, come aspetto centrale nel nesso tra psiche e somatizzazione, alla modalità con cui ciascun individuo costruisce e affronta l’esperienza.
Più ricerche hanno posto in evidenza modi di elaborazione troppo rigidi o troppo generalizzanti, comportando ciò in una difficoltà nel significare adeguatamente gli eventi di vita negativi.
La patologia psicosomatica attesta nel corpo, infatti, proprio un avvenuto fallimento (antico o recente) della capacità di mentalizzazione di uno o più conflitti irrisolti, in pratica della sua elaborazione cognitiva da una parte, mentre dall'altra costituisce un valore di segnale, di comunicazione anche se in forma mascherata.
Si suppone dunque, che la “scelta” dell’organo bersaglio sia in qualche modo connessa al fallimento dell’elaborazione da parte delle strutture cognitive (perdita autoreferenziale), e al significato che gli viene attribuito dal soggetto, ed infine dalla sua particolare modalità psicofisiologica di scarica dell’emozione.
Locus d’insorgenza della malattia tumorale e aspetti organizzativi della conoscenza
Si suppone che esista un valore comunicazionale della malattia psicosomatica nella particolare “scelta” dell'organo su cui sono riversate le tensioni emotive. Si pensa che esista nell’individuo una correlazione tra il luogo di scarica dell’emozione e la tipologia della sua conoscenza.
I Bahnson (ricercatori ad indirizzo psicodinamico) hanno affermato, che alcuni aspetti di personalità possono essere correlati con la malattia tumorale. Proprio i meccanismi di difesa dell'Io (quindi un aspetto di personalità del tipo repressione-negazione), predisporrebbero l'individuo ad esprimere i suoi conflitti sul versante somatico o sul lato ideativo-comportamentale (psichiatrico). Questo atteggiamento nella ottica psicoanalitica sarebbe molto legato al problema dell'aggressività, la cui inibizione si ritorcerebbe sul soggetto stesso attraverso la somatizzazione. L’utilità pratica dell’uso di tale meccanismo difensivo, sarebbe quella di evitare di prendere coscienza delle proprie emozioni negative, e quindi della stessa malattia.
I Bahnson hanno individuato la personalità tipo psicosomatica e psichiatrica, distinte dal tipo di utilizzo dei meccanismi difensivi. La prima centrata sull’utilizzo del meccanismo difensivo della negazione, con la repressione della aggressività aperta e col blocco dell’emozioni, mentre la seconda centrata su quello della proiezione con lo scarico all’esterno della tensione emotiva ed espressione dell’emotività.
Le caratteristiche maggiormente prototipiche che contraddistinguono la tipologia organizzativa della conoscenza di un soggetto vulnerabile alla patologia cancerosa, possono essere ricondotte ad una personalità alessitimica (contraddistinta, in particolare, da una incapacità nell’espressione emotiva), ad una ridotta capacità di elaborazione delle informazioni riguardante esperienze stressanti ed ad una bassa capacità metacognitiva in ambito personale e relazionale.
Tali aspetti o caratteristiche di personalità di tipo patologico, preparerebbero l'individuo, non solo al comune denominatore rappresentato dalla malattia tumorale, ma anche alla sua localizzazione.
Alcune ricerche sostenenti la visuale correlazionista
Gli studi effettuati in questa direzione, al fine di verificare proprio l'ipotesi di un collegamento tra personalità ed eziopatogenesi dei diversi locus cancerogeni, sono stati differenti usando più tecniche d'indagine.
In recenti studi è emerso che il fattore mancanza d’intimità verso i genitori si presentasse in pazienti affetti da patologia cancerosa e, in particolar modo, in quelli affetti da tumore dell'apparato genitale (utero-ovaio), piuttosto che in pazienti affetti da neoplasia in altra sede (polmone, mammella, apparato gastrointestinale, ecc.).
Pancheri e Biondi sostengono che le pazienti affette da tumore alla mammella, avrebbero un particolare "stile" nell'affrontare l'ansia, e sarebbero abituate a reagire allo stress con meccanismi di negazione e repressione.
Ancora, Reznikoff (in P. Pancheri, et. al., in Riv. Di Psichiatria 1981 e 1987), in un gruppo di pazienti, ha riscontrato che queste donne riportavano più frequentemente, rispetto a quelle con noduli benigni, perdite emozionali in epoca infantile, una storia matrimoniale insoddisfacente, maggiori difficoltà nell’identificazione con il ruolo femminile.
Kissen (in ibidem) ha riferito che, una scarsa capacità di scarico emozionale sono caratteristiche comuni di pazienti con cancro polmonare.
Nello studio di Schmakle e Iker (in ibidem), su pazienti con cancro cervicale, è risultato, nella storia recente dei pazienti, una massiccia presenza di sentimenti di disperazione.
Perdita di un legame affettivo importante, ruoli impegnativi avuti nella famiglia durante l'infanzia, disturbi nei processi d’identificazione materna, difficoltà a scaricare l'aggressività verso la madre, fanno ipotizzare questi aspetti come caratteristici delle donne con cancro alla mammella. Altri autori ancora avrebbero riscontrato, inoltre, su queste pazienti, scarso coinvolgimento sessuale, rifiuto del ruolo femminile, ridotta sensibilità emozionale, mentre nella loro storia troviamo frequentemente elementi come, precoce inizio dell’attività sessuale, presenza di vari partners sessuali, storie di divorzi e la presenza di una figura materna.
Si può con ciò supporre che i risultati di queste diverse ricerche, conducano a delineare tipologie di personalità differenti, correlate con le diverse patologie cancerose.
Personalità di tipo cancerosa e quella a rischio di patologia coronarica
I tentativi di correlare direttamente caratteristiche di personalità tipo e malattia tumorale in generale sono stati svariati, ma oggi quelle che presentano maggiore interesse, sono riconducibili alla valutazione dell’effettiva esistenza di un modello di personalità specifica definita come personalità di tipo C cancer-prone personality.
Da studi diversi è emerso che, la personalità di tipo C o personalità di tipo cancerosa, si differenzia in modo opposto alla personalità di tipo A coronary-prone personality, quella a rischio di patologia coronaria. In conformità con questo modello teorico sembra esista un continuum tra queste due personalità estreme, ove esisterebbero tipologie con caratteristiche intermedie. Il tipo C è caratterizzato da atteggiamenti di accondiscendenza, pazienza, passività e con aspetti emozionali quali scarsa espressione della rabbia e di reazione psicobiologica costituita da un’iperattivazione dei sistemi neurovegetativi, con conseguente diminuzione della risposta immunitaria.
In conclusione si afferma, che tipologie psicologiche contrassegnate da modelli di conoscenza strutturati con caratteristiche quali difficoltà relazionali, segni alessitimici, scarsa capacità elaborativa, siano i segni maggiormente predittivi di patologia cancerosa ma anche della sua localizzazione.
Tratto dalla rivista dell’ass. ANPO (Associazione Nazionale Prevenzione Oncologica) n5 maggio2009. Titolo originale “Personalità a rischio” del Dr. Mazzani Maurizio