Un articolo come questo nasce dalla convinzione, sorta in seguito alla mia pratica terapeutica, che generalmente le persone non hanno sufficiente conoscenza di cosa sia, ne a cosa realmente miri una psicoterapia, e soprattutto ritengo che esse, generalmente, non abbiano minima conoscenza di come operi uno psicoterapeuta.
Il mio intento non è ovviamente fare pubblicità agli psicoterapisti, ma solamente offrire informazione per far meglio conoscere quell’azione sanitaria, che pur appartenendo alla casistica dei possibili interventi per la salute dell’individuo, se ne possiede scarsa conoscenza e talvolta addirittura una errata.
E’ chiaro che per spiegare un simile argomento ci vorrebbe uno spazio di almeno 200 pagine, ma nonostante ciò cercherò di esprimere succintamente i punti salienti.
Un propedeutico aspetto da chiarire, è che la psicoterapia agisce sullo stato psicologico dell’individuo “momentaneamente compromesso”. Tale compromissione, convinzione centrale dei cognitivisti, è che sia dovuta allo stress a cui l’individuo è normalmente sottoposto nel percorso della propria vita, ma che per particolari circostanze avversive, raggiunge talvolta valori cosi elevati da comprometterne la capacità cognitiva di fargli fronte.
Inoltre concetto saliente in cui si fonda l’approccio terapeutico, ed in particolare quello che si rifà alla psicologia cognitiva, è che lo stress faccia parte della nostra vita e che non possa essere totalmente eliminato.
L’obiettivo della psicoterapia, infatti, non è quello di incoraggiare i soggetti ad eliminare lo stress, bensì quello di renderli consapevoli della sua natura e del suo impatto sul proprio stato psicoemotivo, a tal proposito propongo una espressione incisiva dell’illustrissimo psicologo americano A. Selye ”la vita sarebbe noiosa senza la sfida di situazioni stressanti”.
La meta non è quindi rimuovere o eliminare lo stress, bensì incitare le persone ad osservare gli eventi stressanti come problemi da risolvere, piuttosto che come minacce personali. Si ha perciò il fine di portare le persone a divenire degli abili risolutori di problemi, nell’affrontare le situazioni avversive che appartengono alla loro vita.
L’incremento di abilità intrapersonali e interpersonali per fronteggiare lo stress costituiscono il motore di una terapia cognitivo/comportamentale.Cosa vuol dire ciò?
Agire terapeuticamente, significa semplicemente far sviluppare competenze, alle quali attingere per incrementare le proprie capacità di tolleranza e resistenza, e far sì che diminuisca l’impatto emozionale ed i costi personali dovuti alle situazioni stressanti. Nella visuale terapeutica, il processo d’intervento è visto nell’ottica di un graduale addestramento alla crescita del paziente, facendogli acquisire strategie comportamentali e cognitive, divenendo così più abile ad elaborare le avversità della vita.Sinteticamente, l’intervento è costituito da diverse fasi:
- la prima è chiamata di concettualizzazione ove si stabilisce una relazione terapeutica collaborativa, e si aiuta capire meglio la natura degli eventi di vita causanti stress, i suoi effetti sulle emozioni e sul comportamento.
- la seconda avviene puntando principalmente sull’acquisizione d’abilità di fronteggiamento dello stress, e la loro ripetizione inizialmente in ambito clinico per poi farle seguire in vivo. In tale fase s’insegnano varie tecniche sia cognitive sia comportamentali, sistematicamente progettate in relazione ai disturbi presentati, e all’atteggiamento (dubbioso, partecipante, diffidente, fatalista, razionale, ecc.) del paziente verso il training stesso. Il terapista in tal momento s’impegna a creare nel soggetto il maggior interesse possibile, affinché quest’ultimo partecipi con forte impegno alle pratiche terapeutiche.
- l’ultima fase si fonda sul sostegno e sulla verifica nel tempo delle abilità apprese. Questo stadio consiste nel testare continuamente, mediante domande specifiche e attraverso tecniche di inversione di ruoli quanto imparato. Nella parte conclusiva di tale stadio, è, infine, chiesto al soggetto una relazione scritta in chiara matrice cognitiva, di ciò che ha vissuto nel percorso terapico, esplicando chiaramente, dal proprio punto di vista, i progressi ottenuti. Quest’ultimo compito ha il fine conclusivo di imprimere ancor meglio quello che il soggetto ha compreso e riconcettualizzato nella pratica terapeutica; come anche costituire un punto fermo al quale riferirsi negli incontri dilazionati nel tempo, che hanno l’obiettivo di un maggior ancoraggio delle nuove abilità cognitive/comportamentali acquisite, in modo che esse diventino patrimonio irrinunciabile del soggetto.
La pratica della cocettualizzazione essendo il dinamismo cognitivo nodale della terapia, ritengo meriti una spiegazione più esaustiva. Essa consiste inizialmente nell’insegnamento di procedure di automonitoraggio al fine di far acquisire al soggetto la consapevolezza del proprio modello cognitivo (le proprie credenze su se stessi e sul mondo), e delle emozioni e dei comportamenti ad esso conseguenti. In un certo qual senso esso costituisce un percorso d’autoconoscenza volto al proprio funzionamento psichico.
Il nocciolo è quello di raccogliere più informazioni possibili sulle situazioni attinenti l’insorgenza del malessere psicologico, e portarle in sede terapeutica per discuterne con il trainer. Molti individui vengono in terapia con una visuale confusa dei propri problemi, si sentono vittime delle circostanze e vivono dei pensieri e sentimenti sui quali sentono d’avere scarso controllo. Essi sono limitatamente consapevoli di quanto le loro reazioni, il modo di far fronte agli eventi e le loro “abilità” per fronteggiarli siano spesso una concausa al potenziamento e all’aggaravamento del loro stress.
Se, premessa, le reazioni che si hanno possono contribuire all’insorgenza e al mantenimento dello stress, consegue, che esiste necessariamente qualcosa che sia in loro potere di fare per controllarlo e modificarlo!
Ecco che la visuale rigida dell’essere solo vittime e impossibilitati ad esercitare un qualche controllo sulle situazioni stressanti, viene ristrutturata in termini di potere d’azione e di cambiamento.
All’inizio di una terapia le persone sono anche gravate da un dialogo interiore (il parlare tra sé e sé) disperato, impotente, caratterizzato da sentimenti demoralizzanti ed autosvalutanti e da una sorta di paralisi della propria volontà. E’ prassi quindi, nell’agire terapeutico, che si cerchi di abbattere le convinzioni che creano ed alimentano tale visuale distorta di se stessi, che mantiene il senso della propria inefficacia al fronteggiamento dello stress.
La mancanza di percezione d’autoefficacia rappresenta l’assenza del senso di personale forza, che si fonda sulla consapevolezza d’essere abili ad affrontare una determinata situazione, ciò deriva sempre dal modo di percepire sé stessi e di porsi in rapporto con la realtà
Brevemente, per incrementare l’autoefficacia percepita, si stimola principalmente la persona sia a confrontarsi con determinati compiti, secondariamente sia a cimentarsi con attività di cui è portato ad esagerarne le difficoltà, per far ciò si usano argomenti razionali e l'incoraggiamento.
E’ quindi particolarmente rilevante, ribadisco, l’incremento della consapevolezza del soggetto sul proprio ruolo nelle reazioni di stress.
Far acquisire tale centralità, è di primaria importanza, le persone sono artefici di ciò che si vivono, perciò appare ovvio supporre che esse non sono soltanto vittime del proprio stress, anzi appare alquanto palese immaginare che la propria posizione attiva (il modo personale di valutare gli eventi, come si sente, si pensa e ci si comporta) contribuisca eclatantemente al proprio livello di stress. Ne consegue, concetto estremamente centrale, che è dunque in potere del soggetto stesso porre termine o comunque diminuire la potenzialità delle situazioni avversive nell’indurre stress.
Noi siamo i costruttori della nostra realtà, artefici e vittime dei nostri pensieri, comportamenti ed emozioni!
Man mano che si raccolgono i dati, avviene la riconcettualizzazione dove si offre un modello concettuale alternativo d’osservazione dei dati raccolti, quali causa del proprio stato emotivo disfunzionale. E’ nel corso della narrazione del paziente, che lo psicoterapeuta tra informazioni utili alla comprensione delle disfunzionalità disadattive, insite nella sua struttura mentale. Egli l’aiuta poi ad osservare le avversità in termini più benigni e che siano suscettibili di mutamento.
Siamo dunque alla ristrutturazione dei problemi e dei sintomi legati allo stress, con l’offerta di un’interpretazione alternativa più adattiva e nello stesso tempo più funzionale al raggiungimento dei propri scopi di vita.
In conclusione si induce contemporaneamente nel paziente, una diminuzione delle difese egoiche parassite, un incremento della sua complessità cognitiva con lo sviluppo di capacità di comprensione dei propri stati mentali e di quelli altrui (capacità metacognitive), come anche, obiettivo fulcro, maggiore plasticità all’invalidazione delle proprie credenze, cioè maggiore facilità al decentramento dalla visuale soggettiva. Ciò significa maggiore malleabilità a concepire, il proprio modo di osservarsi e di osservare, solamente come una possibilità di costruzione relativa e non assoluta!
Mazzani Maurizio
domenica 22 settembre 2013
La Psicoterapia cognitivo Post-razionalista: le emozioni
Il post-razionalismo assume come centrale per
l'uomo i processi di autoorganizzazione e di costruzione del significato
personale.
Un aspetto
centrale da evidenziare, è che la prassi post-razionalista pone il suo fulcro
d’interesse terapeutico sulla soggettività
e in particolare sulle attivazioni
emozionali, differenziandosi così dall’ortodossia terapeutica cognitivista,
che vede nel pensiero il centro dell’agire terapeutico. E’ bene dire, che la
psicoterapia nata dagli studi di A. Beck e A. Ellis, fondatori del cognitivismo
terapeutico americano, si è dimostrata, nel tempo, e alla luce di innumerevoli
riscontri scientifici, una delle psicoterapie più efficaci. Essa però, secondo
i post-razionalisti, ha delle intrinseche limitazioni dovute ad un agire
terapeutico eccessivamente razionalista e troppo orientato sul mentale, dimenticando
così la componente emotiva che, conseguenzialmente cade in secondo piano.
Nell’evoluzione terapeutica
cognitivista si è presentato utile, dunque, trasformare la visione prettamente razionalista,
ancorata su basi che possiamo dire “pedagogiche”, con un fare terapeutico che
si dimostra, quasi come un’azione educativa, finalizzata basilarmente a
correggere il solo modo di pensare e di comportarsi della persona, in una
ottica terapeutica che vede nell’individualità il centro del proprio agire. Il terapeuta
cognitivista ortodosso, di fatto, agendo come una sorta, di genitore solo
perché adulto e quindi più sapiente e maturo, o di un insegnante che ha dalla
sua parte il proprio modello di riferimento pedagogico-educativo o, infine, di un
prete che ha dentro di sé la convinzione di possedere una verità al di sopra
d’ogni altra, si pone, presuntuosamente, quale detentore d’un modello di vita
più funzionale e buono per tutti. Il terapeuta post-razionalista invece non ha una
verità superiore da offrire al paziente, ma solamente lo aiuta, attraverso
perturbazioni strategicamente orientate a trovare la propria strada, il proprio
modo di essere che lo renderà più conoscente e più capace di orientarsi nel
mondo.
Nell’azione
terapeutica post-razionalista il fulcro è lavorare con l’emozioni, badando a non
dimenticare che l’esperienza è vissuta su due livelli di conoscenza. Il primo
organizzativo costituito dall’esperienza immediata senso-percettiva con le
conseguenti attivazioni emozionali e rappresentative ideative, tale livello
essendo poco consapevole costituisce la conoscenza tacita scarsamente definita,
globale (cosa, come e quando proviamo qualcosa). Nel secondo livello,
attraverso l’operatività logico-analitica, che fa capo all’interprete (per maggiori informazioni leggere l’articolo: “Emisfero
sinistro: l’interprete”), avviene la “spiegazione dell’esperienza” alla luce di
quelle in precedenza vissute, al fine di mantenere la coerenza interna (ed è il
perché proviamo qualcosa), una conoscenza, questa, esplicita e consapevole di
sé e del mondo.
L’assimilazione
dell’esperienza è resa possibile solo attraverso processi autoreferenziali, che
utilizzano idonee spiegazioni fortemente soggettive al fine di mantenere
l’orientamento su di sé che è cosa di basilare alla sopravvivenza.
L’agire
terapeutico deve avvenire, pertanto, puntando l’attenzione non sulle
spiegazioni che il soggetto ci offre, che sono fortemente finalizzate al
mantenimento della propria coerenza anche a scapito della realtà, ma sull’esperienza
immediata che fornisce, per così dire, l’accesso diretto a comprendere il
funzionamento del soggetto, le sue difficoltà e i suoi sforzi di adattamento
per potersi riferire l’esperienza senza che venga meno la coerenza personale, dobbiamo
darci tante spiegazioni quando un’esperienza fortemente discrepante comporta alta sofferenza.
Le emozioni non devono
essere ricondotte al solo sub-stato fisiologico oggettivo che designa l’aspetto
clinico disturbante, ma vanno viste nel loro aspetto adattivo. Esse, anche
causando disagio, non devono essere soppresse o tenute sotto controllo come si
agisce attraverso gli approcci clinici tradizionali o ancor peggio con la psicofarmacologia,
ma considerarle nella loro interezza concependole per ciò che sono: messaggeri
informazionali che hanno la loro ragion d’essere nel valore conoscitivo che è prioritario
rispetto ai processi cognitivi, poiché esprimono più direttamente la
soggettività che emerge tra l’esperienza immediata e la successiva spiegazione
che la persona da a se stessa.
Tutti
percepiamo l’esperienza che ci appartiene come se fosse oggettiva quando in
realtà è solo una personale modo di assimilarla, di gestirla basato su cliché
formatesi nel percorso evolutivo di cui spesso non né siamo neanche
consapevoli. Come ha
osservato Tomkins, (1978), “avvertiamo
di provare un’emozione sproporzionata rispetto a quanto accaduto, senza
renderci conto di
avere strutturato nel
tempo quel modo particolare
(unico e costante)
di percepire ciò
che ci capita
di sperimentare”. Il
lavoro terapico è proprio nell’aiutare il soggetto a trasformare ciò che vive
come oggettivo ed esterno in interno. Esiste la tecnica della moviola, che consiste nell’analizzare un episodio
critico della vita del soggetto, che viene messo a fuoco come se fossero parti
di una sceneggiatura, (in pratica: il terapeuta guida
il paziente nel lavoro di differenziazione tra esperienza immediata e sua
spiegazione rendendolo consapevole del lavoro di attribuzione a sé che si
esplica tra i due livelli di conoscenza tacito-esplicito Dodet, 1998)
poi
si cerca di riformulare il problema, che era stato portato in termini oggettivi
ed esterni, in un qualcosa che è espressione del modo soggettivo di funzionare.
Con ciò l’esperienza problematica diventa assimilabile non creando così più
perturbazione critica alla coerenza interna, al momento che le emozioni vengono
viste, quindi, quale prodotto del proprio modo di operare. Si punta, pertanto, a costruire un processo terapeutico che
sia in grado di produrre emozioni tali da innescare un cambiamento delle
emozioni critiche alla base del disturbo.
Siamo arrivati
al dunque della psicoterapia cognitivo post-razionalista, che vede nell’azione
sui contenuti emotivi la possibilità di una co-esplorazione (tra terapeuta e
paziente) del mondo interno del soggetto, tale da poter indurre un cambiamento
stabile e non solo ad un maggior controllo e ad una migliore gestione dei
sintomi, che spesso riemergono in altra forma, rimanendo così il disagio di
fondo iniziale.
Mazzani Maurizio
venerdì 8 marzo 2013
L’interprete “Cos’ha il cervello da consentire alla mente di essere e funzionare”
Entriamo in dialettica con
noi stessi, riflettiamo, facciamoci delle domande sulla natura della mente e
sulle sue capacità di essere e di funzionare.
Di fronte a tale complessità un brivido avvolge il nostro corpo, lasciandoci attoniti davanti al mare inconoscibile, ma che pian piano sembra apparire sempre meno segreto.
Di fronte a tale complessità un brivido avvolge il nostro corpo, lasciandoci attoniti davanti al mare inconoscibile, ma che pian piano sembra apparire sempre meno segreto.
A cominciare dalla filosofia fino ad
arrivare alle neuroscienze, godiamo, oggi, di quel sapere che ci rende, forse,
poco, poco più consapevoli delle implicite leggi biologiche che ci riguardano.
La carta vincente è sicuramente
l’approccio multidisciplinare, un approccio dove scambi tra differenti
discipline permettono di sopperire ai limiti taciti di ciascuna scienza.
Biologia molecolare, genetica, psicologia cognitiva, modelli computazionali,
tecniche di neuroimaging, un tutto conoscitivo proprio alle neuroscienze
cognitive, che si evidenziano quale ponte tra la neurobiologia cerebrale
e lo sviluppo di concetti astratti.
Dobbiamo agli studi su pazienti
epilettici a cui veniva rescisso chirurgicamente il corpo calloso (blocco
dell’intercomunicazione tra l’emisfero sinistro e destro), un metodo che ha
dato, non solo, dei buoni risultati per la cura dell’epilessia ma anche, nel
contempo, ha permesso di effettuare, sui medesimi soggetti, differenti studi
testologici, che hanno dato inizio alla comprensione dell’aspetto funzionale
del cervello.
Nasce proprio in seguito di tali ricerche la maggiore evidenziazione della specificità funzionale tra i due emisferi, se non ché, gli studi sul modo in cui il cervello produce memoria, ragionamento, emozioni ecc., che costituiscono il corpus della disciplina che oggi conosciamo come neuroscienze cognitive.
Nasce proprio in seguito di tali ricerche la maggiore evidenziazione della specificità funzionale tra i due emisferi, se non ché, gli studi sul modo in cui il cervello produce memoria, ragionamento, emozioni ecc., che costituiscono il corpus della disciplina che oggi conosciamo come neuroscienze cognitive.
Eccoci, dunque, all’obiettivo: conoscere
le basi della nostra coscienza e le funzioni che la caratterizzano – la
simbolizzazione, l’astrazione, la metaforizzazione, ecc., insomma, conoscere la
natura “magica”, di quel poco più del 2% di attività mentale che è la coscienza.
Un punto su cui soffermarsi, è che
l’apprendimento, per quanto si sia diversamente pensato per anni, pare che
simuli il medesimo meccanismo per selezione proprio al sistema immunitario (una
cellula preesistente “immunitaria”, riconosce l’antigene, e a scopo difensivo
comincia a moltiplicarsi e, eventualmente, a mutarsi e a specializzarsi per far
fronte, in maniera più efficace, allo stesso, ecc.).
Nell’apprendimento il tutto sembra avvenire similmente… l’”antigene”… l’eventuale perturbazione ambientale funge, in un certo qual senso, da selezionatore, tra miliardi di schemi, di risposte preesistenti, che vengono selezionate per individuare quella più congrua a rispondere meglio alla sfida ambientale in oggetto.
Nell’apprendimento il tutto sembra avvenire similmente… l’”antigene”… l’eventuale perturbazione ambientale funge, in un certo qual senso, da selezionatore, tra miliardi di schemi, di risposte preesistenti, che vengono selezionate per individuare quella più congrua a rispondere meglio alla sfida ambientale in oggetto.
Ho già affermato che esistono delle specificità funzionali tra i due emisferi, il destro è specializzato nell’elaborazione delle informazioni socio-emozionali .
L’emisfero sinistro invece è la sede del
linguaggio, del ragionamento analitico, della risoluzione di problemi, della
capacità di trarre inferenze e di interpretare le nostre azioni e
sentimenti.
La maggiore comprensione del funzionamento della mente viene ancora grazie ai test sui pazienti split brain e sulla convinzione del funzionamento dell’apprendimento per selezione e non per istruzione (per istruzione significa che è l’organismo che risponde all’ambiente). Il neuroscienziato Michael Gazzanica ci fornisce uno studio molto esaustivo che evidenzia proprio la presenza della funzione di Interprete del cervello sinistro. Una funzione preposta alla spiegazione del nostro comportamento.
Lo studioso racconta nell’ambito sperimentale dello split brain, che, in contesto di studio, venne mostrata alla metà destra del cervello una persona che stava facendo una passeggiata, poi successivamente si chiese al paziente di mimare ciò che stava osservando, questi si alzò in piedi e cominciò a camminare ma al momento di chiedergli cosa stava facendo, fu il suo emisfero sinistro, ignaro di quello che aveva visto il destro, a fornire la risposta attraverso una qualche invenzione razionalizzante, una spiegazione inventata di bell’appunto che ebbe un qualche senso logico (volevo solo bere qualcosa) (M. Gazzanica 2007).
E’ l’Interprete che osserva ciò che il
soggetto sta facendo e fornisce una qualche spiegazione sensata (a sé stesso)…
di fatto un lavoro di mantenimento di coerenza personale alla luce dei propri
valori conoscitivi.
Il punto èproprio questo, ognuno di noi utilizza il proprio Interprete per spiegarsi i propri stati emotivi (ansia, euforia, depressione, panico, rabbia, ecc.), è Lui che cerca di dare delle spiegazione sui priori cambiamenti. L’individuo cattura una variazione fisiologica, qualsiasi essa sia, una emozione che muta ed ecco l’Interprete che comincia a costruire la sua teoria di ciò che sta accadendo.
La cosa che colpisce, é che gran parte del lavoro dell’Interprete è, spesso, di natura auto-ingannevole, poiché ha solo fine di non contrastare la consueta visione di sé stesso alla luce del contesto ambientale che lo caratterizza.
Mazzani Maurizio
La coscienza… e se fosse tutto un’illusione
Ogni creatura che si è evoluta a tal punto da
godere dell’intelligenza, percezione, memoria, linguaggio ed emozioni non può
che essere cosciente!
Cos’ha il cervello da permettere
alla mente di essere e funzionare.
E’ proprio nell’essere e nel funzionare
della mente, che la “magia” si concretizza in quel qualcosa di sensazionale che
chiamiamo esperienza interiore, soggettiva e privata
Nell’affrontare la questione appare
bizzarro, non potendo estraniarci dal nostro oggetto d’indagine, dover prendere
atto che la coscienza si trovi proprio ad esplorare se stessa. Di fronte a tal
tema sorge spontanea la riflessione sulla consapevolezza di essere consapevoli di
ciò che si sta scrivendo sul proprio essere consapevoli, è un gioco di parole
che evidenzia la complessità dell’argomento.
La coscienza è ciò che accompagna
ogni nostra attività del ragionare, del vedere, del correre, ecc., è il
riconoscere il sentimento che
accompagna ogni segmento della nostra vita. La coscienza è il senso d’essere, che si delinea ogni qual volta che si ha sentimento nell’espressione di un processo cognitivo specializzato. Cosa
avvincente, è che la consapevolezza del nostro Sé concettuale lavora a
posteriori, essa riconosce il senso di un dato processo mentale solo dopo che
è avvenuto… “La mente può divenire
consapevole solo un tempuscolo dopo che il cervello ha operato “. La coscienza
nascerebbe, secondo lo studioso Libet, dopo che il cervello sia stato
sufficientemente stimolato, pare che sia
necessario un tempo lungo (mezzo secondo) di attività della corteccia per far
si ché compaia il fenomeno della coscienza.
Da
studi sulla risposta comportamentale a seguito di richieste di compiti da parte
dello sperimentatore, è emerso che il cervello si attivava prima che il
soggetto avesse coscienza della scelta di agire - passavano circa 300ms tra
l’attività cerebrale e la coscienza della decisione presa. Il libero arbitrio,
pertanto, cosi come è comunemente inteso, cade inevitabilmente, definendosi
solo come un’illusione. Libet ricavò che il libero arbitrio risiedesse non
nell’automatismo della decisione, ma nel potere di veto. Emerge, dunque, in
base a tali rilevazioni, che l’unica libertà decisionale, quindi cosciente, che
abbiamo, come già affermò il filosofo John Locke più di duecento anni fa,
sarebbe quella del veto e non quella dell’arbitrio, ma, tale evidenza rimane,
ancora oggi, soggetta ad ulteriori ricerche e approfondimenti.
E’ grazie alla coscienza, dunque,
che riconosciamo “il fatto” di provare delle emozioni in conseguenza a qualcosa
che percepiamo. L’uomo, rispetto agli animali ha cognizione di più cose, va
oltre la semplice consapevolezza delle proprie capacità. Ogni specie animale è consapevole
delle proprie abilità, mentre, è propriamente umana la sensazione che abbiamo
di esse: tale sensazione corrisponde
al quanto d’energia che dona
l’effetto della coscienza di avere un Sé.
La maggiore articolazione della consapevolezza è direttamente proporzionale
alla complessità del cervello che l’ha prodotta. In poche parole, le capacità
del cervello sono associate ad almeno una rete neuronale, più reti possiede il
cervello tanto più sarà la consapevolezza delle sue capacità.
E’ dalla fisicità cerebrale, quindi,
con la sua attività elettrica e bio-chimica di milioni di cellule che,
lavorando all’unisono, si esprime, come fenomeno
quantico, la coscienza. Essa è
così intimamente connessa con il cervello che i mutamenti nell’uno hanno
effetto sull’altra, ad esempio: le sostanze che alterano le funzioni del
cervello, le lesioni cerebrali seguite a traumi o le stimolazioni sperimentali
ad opera di ricercatori su cervelli con corteccia esposta, parallelamente producono
alterazioni nel funzionamento della coscienza.
E’ bene chiarire che l’attività
cerebrale ha un funzionamento non centrale, come intuitivamente viene da
pensare, ma basato su processi paralleli e non seriali… nel linguaggio
informatico possiamo dire, non una CPU
centrale (Central Processing Unit – il cuore del computer) ma tantissime CPU che lavorano in parallelo, cioè
contemporaneamente. Pare che sia proprio tale contemporaneità nel funzionamento
di differenti zone cerebrali, anche tra loro distanti, la causa del fenomeno quantico dell’esperienza
soggettiva.
Il corpus d’interesse, è
l’ipotesi della coscienza quale effetto superiore del funzionamento del
cervello. Si è trovato che alcune zone dello stesso siano caratterizzate da
cellule dotate di qualia (gli aspetti qualitativi delle esperienze coscienti… cioè
le sensazioni specifiche alle singole esperienze). Differenti studi hanno messo
in luce in maniera chiara il nesso tra funzionamento del cervello e la
coscienza, rapidamente possiamo citare il caso dell’amnesia anterograda dove il soggetto mantiene sia la memoria a
breve termine sia quella a lungo termine, ma quest’ultima solo fino a un dato
momento, dopo il quale il soggetto non ricorda più nulla, ciò che avviene, è
che gli amnesici, come qualsiasi altra persona, vivono, da un lato, il presente
come un flusso di coscienza unitario e percepiscono il nesso tra un istante e
il successivo, mentre dall’altro non hanno nessun senso di continuità fra l’oggi
e il domani e non possono pianificare un futuro basandosi sul passato. Altro
studio ci viene dal caso di visione cieca
(l’individuo che ne è affetto ha una zona cieca o scotoma nel proprio campo
visivo), in questo caso alcuni soggetti sottoposti a visioni di oggetti posti
proprio nella zona buia, pur rispondendo che non vedevano nulla erano capaci di
orientare gli occhi nella direzione giusta, oppure erano in grado di imitare i
punti luminosi che si spostavano nella zona cieca, quello che emerge è che il
vedente cieco ha una visione oggettiva ma non ne ha coscienza, poiché sarebbe privo
di qualia visivi.
In conclusione si può affermare
che la coscienza costituisce un epifenomeno
dell’attività elettrico-chimica cerebrale, e che in assenza di attività
cerebrale non può esserci coscienza. Berlucchi G. (neuroscienziato): “può esistere un cervello funzionalmente
attivo senza coscienza, ma non può esistere una coscienza senza un cervello
funzionalmente attivo, sfido chiunque a smentirmi”.
Maurizio Mazzani
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