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mercoledì 18 maggio 2011

Cosa c’è alla base del rapporto affettivo… amore o dipendenza?

Da cosa nascondono espressioni del tipo:
ti amo,
ti voglio bene,
voglio stare con te tutta la vita, ecc?

Non è che voglio minare quella poesia, quel romanticismo proprio ai rapporti amorosi, ma ritengo, che saperne di più aiuti sicuramente a far meglio funzionare una relazione o a subire meno la conseguenza di un eventuale fallimento.
Una specifica conoscenza offre sempre maggiore capacità di fronteggiamento delle difficoltà del quotidiano; così una relazione amorosa potrebbe funzionare sicuramente meglio, se ne conoscessimo i meccanismi che la regolano.

In primis viene da domandarci:
- cos’è che spinge il nostro comportamento verso una o un’altra persona?
- cosa c’è dietro l’innamoramento?
- cos’è che crea l’ostinazione a mantenere in piedi una relazione ormai dimostratasi fallimentare?

I punti cardine dietro a tali domante sono riconducibili al motore motivazionale fondato sul raggiungimento di determinati scopi di vita, e alla dipendenza che si crea in conseguenza all’ottenimento o meno di essi.
Una maggiore o minore presenza di dipendenza in un individuo, è dunque in relazione al suo sistema motivazionale, ove sono in gioco il raggiungimento dei propri scopi e le credenze che si hanno su di essi.
Nella psicologia clinica e sociale la dipendenza, generalmente, è vista come un aspetto costituente una relazione disfunzionale, un deficit dell’individuo adulto nel suo funzionamento interpersonale.
La rigidità della dimensione patologica che ha da sempre caratterizzato la relazione dipendente, sembra comunque che venga, in questi ultimi anni, confutata da diverse ricerche in ambito psicologico e sociale.
Recentemente, infatti, è venuto meno quello stretto legame tra dipendenza e patologia, è emerso, che la dipendenza non sia di per se stessa disfunzionale.
L’ottica nuova con la quale osservarla, sembra essere quella di non considerarla più una caratteristica della personalità patologica, bensì una condizione oggettiva e/o soggettiva di una persona rispetto ad un’altra o, in generale, a più persone.
La dipendenza reciproca e paritaria, che incita una scambievole fiducia, sembra costituire ingrediente fondamentale per una relazione appagante e profonda. Gli individui che credono nel valore dell’autonomia personale in modo che essa sia auspicata come una condizione essenziale per il proprio benessere, sembra che vivano più difficilmente una relazione affettiva appagante, soddisfacente e profonda e che non riescano a riporre facilmente fiducia nel partner.
Purtroppo, nella realtà accade più che frequentemente, che una dipendenza funzionale e paritaria, sprofondi in una asimmetrica, ove uno dei due componenti della relazione è più dipendente dell’altro.

Un eccesso di dipendenza in una relazione affettiva cos’è esattamente?

Una persona che si trovi in una condizione di dipendenza eccessiva da un’altra, significa, in termini puramente utilitaristici, che la persona è dipendente da un’altra, quando nel raggiungimento di alcuni dei sui scopi di vita “considera” l’altra il mezzo per raggiungerli, ritenendo di non avere le risorse necessarie per ottenerli da sola o in altro modo.
Tale realtà è in relazione al numero degli scopi, ciò ovviamente inteso in senso lato, e alle credenze che si hanno su di essi.

Che significa ciò?

Semplicemente che in una relazione d’amore come anche in una qualsiasi relazione, quanto più sono gli scopi che si raggiungono, o che si creda di raggiungere, per via dell’altra persona, tanto più si è dipendenti.
In una relazione asimmetrica la quantità di scopi o il valore ad essi assegnato è tra i due diverso, o anche che la persona più dipendente ritenga, rispetto all’altra, di riuscire a soddisfare, attraverso di essa, alcuni dei propri scopi mentre l’altra no.
Nella relazione affettiva gli scopi che si raggiungono attraverso l’altro, hanno una valenza particolarmente forte, poiché riguardano il raggiungimento dell’appagamento del bisogno d’attaccamento e d’amore in primo luogo, mentre in secondo luogo riguardano la progettualità, la famiglia, i figli, il fare delle cose assieme, ecc., ecc.

E’ utile precisare che, mediante le relazioni in generale e in quella amorosa in particolare, noi raggiungiamo se stessi, di fatto l’altro è il “mezzo” attraverso il rimando del quale noi ci percepiamo, sentiamo il senso della vita. La reciprocità rappresenta una sorta di dinamismo dove ognuno, in un certo qual senso, s’alambicca per avere il maggior ritorno d’apprezzabilità, di considerazione, insomma di conferma d’amabilità personale.

Riprendendo, nella relazione affettiva l’asimmetria è una condizione frequentemente presente, ed è proprio questa che crea il malessere di coppia e quindi la sua disfunzionalità.
Talvolta, inoltre, a contribuire alla maggiore dipendenza dei due componenti della coppia si presentano le condizioni più disparate. La maggiore dipendenza è funzione delle alternative disponibili, vale a dire la possibilità di avere le stesse gratificazioni al di della relazione in questione, cioè sia se esiste la possibilità di poter fare riferimento ad altre persone differenti dal partner, sia alla possibilità di sentirsi facilmente in grado in futuro di poter soddisfare gli scopi dipendenti dall’altro, anche se nel presente ci si trova in una reale condizione di dipendenza.
Pare comunque chiaro, che la condizione di dipendenza di una relazione affettiva è fortemente favorita poiché, oltre ad essere in gioco gli appagamenti offerti dal partner riguardo a eventuali bisogni materiali, è in ballo la propria amabilità, la conferma, come già detto, di essere desiderabili dall’altro.

In una così complessa panoramica, risulta, quindi, facile comprendere come spesso sia difficile trovare il partner idoneo, che soddisfi la condizione necessaria, affinché si pongano i presupposti utili al soddisfacimento dei propri scopi. Per ottenere questo è condizione essenziale che si riesca a “convincere” l’altro a orientare il suo comportamento in modo che soddisfi le nostre mire, a tal fine c’è bisogno d’una capacità seduttiva (che costituisce, di fatto, una sorta di potere sull’altro) per superare la resistenza da questi presentata. Da qui tutte le manfrine che usualmente si presentano durante la fase di conquista e le successive gelosie e possessivismi caratteristici delle storie d’amore… un tutto utile a soddisfare il bisogno più che fondamentale di conferma di sé da parte dell’altro.
Di fatto le condizioni di cui sopra risultano non facilmente realizzabili, perciò è facile capire come il rischio di non trovare alternative favorisca la dipendenza dall’altro e il mantenimento di relazioni fallimentari!

Mettendo sempre da parte la visuale romantica dei rapporti amorosi, la caratteristica spesso ossessiva che segna l’ostinazione di una relazione affettiva in difficoltà, è dovuta agli scopi raggiunti o potenzialmente raggiunti dal dipendente attraverso il partner, che cerca di mantenere il più possibile reale la possibilità che l’altro continui a soddisfare le sue esigenze.
Sì, sembra un paradosso, ma la realtà pare essere proprio questa.
L’individuo che si trova nella posizione sfavorevole di una relazione asimmetrica, ritiene erroneamente che il partner debba necessariamente soddisfare le sue esigenze, anche se questi abbia comunicato, in diversi modi, di non essere più disponibile, ma il dipendente, offuscato dalla proprie credenze sostenute dal bisogno impellente di soddisfare i propri scopi, si trova spesso a non recepire i messaggi verbali e non verbali dell’altro, questo attraverso l’uso di diversi meccanismi difensivi (illusione, inganno, negazione, ecc.,).
E’ tipico, infatti, avere a che fare con espressioni del tipo: prima o poi cambierà, sicuramente è solo un momento transitorio, ecc. La realtà purtroppo il più delle volte è ben altra, la condizione d’asimmetria e lo svantaggio detenuto dal partner dipendente, fa sicché questi stia nel posizione tipica di rincorrere chi fugge, consolidando così la logica della complementarietà ruoli: se ne esiste uno di ruolo deve necessariamente esistere l’altro

In sintesi, l’asimmetria in una relazione affettiva dipende dalla differente importanza tra i due della coppia, attribuita agli scopi raggiunti attraverso l’altra persona. Inoltre, il dipendente ritiene o ha realmente meno alternative alla sua relazione rispetto al partner, e poco potere sull’altro nell’indurlo a soddisfare i propri scopi. Da tale punto consegue, che quanto più è presente dell’insicurezza che il partner soddisfi i propri obiettivi (mancanza di potere – affettivo, denaro, carisma, ecc.) tanto più si è dipendente da questi.
Inoltre va fatto presente che fino a quando si riterrà che il partner prima o poi soddisferà le nostre aspettative (es. mio marito prima o poi cambierà come detto) si è portati a mantenere il ruolo di sottomissione e di particolare disponibilità verso i sui bisogni, con l’obiettivo illusorio di vincere le sue resistenze e sperare nell’eventuale soddisfacimento dei propri (ecco qui di nuovo venire palesemente alla luce la complementarietà dei ruoli).

Quando si è in condizione di dipendenza, ci si trova ad essere facilmente influenzabili dal proprio partner, poiché quest’ultimo è nella posizione di favorire oppure ostacolare il nostro benessere. Vediamo che l’asimmetria relativa alla dipendenza non è altro che un’asimmetria di potere all’interno della coppia, dove chi detiene il potere maggiore può facilmente cadere nell’approfittamento o addirittura nello “sfruttamento” del proprio partner, anche se quasi sempre inconsapevolmente.

In conclusione, doverosamente aggiungo, dopo avere tecnicizzato togliendo il sipario poetico ai rapporti amorosi, che l’amore ovviamente può esistere, ma è purtroppo molto difficile contrastare la coazione costituita dal bisogno di conferma di sé!

Mazzani Maurizio

Disturbi psicogeni dell’alimentazione: anoressia e bulimia

Talvolta i giovani sono soggetti a disturbi del comportamento alimentare… perché accade ciò?

In primis, è bene sapere che questi due disturbi hanno in comune alcune caratteristiche: la ricorrenza episodica delle “abbuffate” (crisi bulimiche), il comportamento compensatorio come il vomito provocato e abuso di lassativi, indotti dal paradossale timore ossessivo di acquistare peso.


E’ bene inoltre ancora dire, che la patologia bulimica arriva talvolta perfino a sfociare in quella anoressica.
Molteplici studi si sono fatti a riguardo, ed è emerso, che i soggetti affetti da tali patologie, hanno dal lato familiare una struttura cognitiva segnata da un attaccamento contraddistinto dell’ambiguità, dall’incertezza e della confusione, tutto ciò dovuto spesso alla mancanza di sicurezza dei genitori nei loro ruoli. Per cui l’alimentazione diviene il centro del contatto col neonato; alcune volte troviamo addirittura dei figli indesiderati.


Questi genitori sono incapaci a comunicare il loro affetto, esso è frammentario e titubante, senza però arrivare alle modalità estreme delle famiglie degli psicotici ove la comunicazione affettiva è estremamente frammentata.
La reciprocità dei primi scambi, dunque, è all’insegna della confusione e della mancata chiarezza. Tale rapporto se conservato nel tempo, diviene il presupposto problematico, che rende difficoltoso per il soggetto, sviluppare il giusto amore di se stessi e di interiore sicurezza.
La figura paterna in queste famiglie possiede aspetto particolarmente deludente, egli spesso avendo difficoltà ad entrare nel ruolo di padre, è raramente presente, e le assenze che lo caratterizzano, costituiscono per il piccolo figlio dei veri propri abbandoni. Tale contesto tipo, è talvolta acuito dalla separazione tra i coniugi, poiché i figli generalmente affidati alla madre, hanno ancor meno la possibilità di relazionare con tale figura paterna.


I pazienti generalmente raccontano in terapia, di non poter dire o fare quello che volevano o sentivano, ed erano sempre a compiacere gli altri al fine di soddisfare il loro bisogno di sentirsi accettati. Troviamo con ciò, che il libero arbitrio è incentrato solo sull’alimentazione, il mangiare troppo o troppo poco diviene l’unica alternativa per esprimere se stessi!
L’esser grassa diviene una forma di rassegnazione, ma anche di protesta, l’esser magra pertanto “carina”, diverrebbe la sola chance (ipotesi: per farsi notare dal proprio padre nelle sue rare comparse).
Il cibo e l’aspetto fisico diventano il campo neutro, in cui l’adolescente può controllare il suo ambiente ed esporre le sue esigenze. Si ha così talvolta una vera e propria strategia intorno all’alimentazione.
L’ansia dovuta alle aspettative di rifiuto, (convinzioni incentrate sulla paura di non essere accettati per quello che si è) provocando disorientamento e sensazioni di vuoto, è colmata con mangiate eccessive tipiche della fase bulimica.


La possibilità di recupero d’autostima è legata al mantenimento di ferree diete con esclusione e rigetto di qualsiasi cibo, che frequentemente si alterna con improvvise crisi bulimiche.
Essendo, dunque, palesemente ovvia l’implicazione familiare, ne deriva che in caso di psicoterapia, i genitori non devono essere esclusi, onde evitare che contrastino la terapia stessa. I genitori devono non opporsi al raggiungimento dell’autonomia, ansi incoraggiarla.
Dal lato culturale, il disturbo anoressico sembra segnato dal modello della “super donna”, capace, ambiziosa e di successo, che osserva minuziosamente l’estetica della magrezza, spesso pubblicizzata come ideale di bellezza femminile dall’industria della moda, tutto ciò sembra favorire, in tali soggetti, sentimenti d’inadeguatezza.
Le conseguenze del digiuno o dell’eccessivo mangiare, assumono valore di rinforzo negativo (evitamento dell’ansia), che insieme a rinforzi di tipo positivo (ipotesi: attirare la compiacenza degli altri), contribuiscono a mantenere la disregolazione alimentare nel tempo. Il proprio fisico diventa il modo di evitare il giudizio degli altri, poiché gli occhi del mondo si posizionerebbero sul corpo divenuto oggetto di scambio, di conseguenza l’accesso al mondo interiore, particolarmente vulnerabile in tali soggetti, sarebbe in un certo qual senso evitato.
Per l’organizzazione cognitiva di tali persone, l’amore rappresenta l’unica e assoluta fonte di vita e di riconoscimento personale, infatti, proprio per questo che rappresenta l’area di maggior timore di disappunto e delusione.


La caratteristica dell’ambiente familiare, ove era determinante l’ambiguità dei sentimenti, ove gli affetti non erano esperiti chiaramente, infatti, porta ad una modalità confusa nella gestione dei rapporti affettivi.
Gli stati emotivi vengono inespressi, e talvolta reazioni depressive anche gravi rimangono nascoste a lungo, manca senso dell’umorismo e compare notevole irritabilità.
La perdita di appetito, in tali soggetti, è rara, anzi molti di essi mangiano, ma poi fanno seguire un vomito “auto indotto”, che talvolta viene percepito come “spontaneo”, al fine evitare che il cibo ingerito venga assimilato, in questi casi si è in presenza, in modo alterno, anche della bulimia.
In alcune donne si può rilevare una sensibilità di tipo paranoideo, fino ad arrivare ad episodi d’irragionevole rabbia indirizzata verso colui che queste pazienti credono, quale causa della loro mancata capacità di differenziarsi e di individualizzarsi. Per cui il loro comportamento, facilmente è contrassegnato da una “morbosità folle” indirizzata verso la dimostrazione della loro “individualità” voluta ma temuta.


Questo perché nei loro rapporti affettivi dell’età adulta, rivivono con estrema facilità l’ombra della loro famiglia, quale è stata limitatrice al raggiungimento della loro autonomia.
Si fa prevalente l’idea, dunque, di non possedere una personalità indipendente poichè spesso è molto bassa l’autostima. Mai hanno la sensazione di fare le cose perché le vogliono fare, esse vivono l’agire quale condotta basata su una reattività a vasto spettro. Questo atteggiamento è a volte camuffato dal terribile negativismo e da una sfida cocciuta. La vita di esse diventa una lotta contro la sensazione di essere sempre gestite dall’altro, sfruttate e contro la realtà di credere di non vivere la propria vita.

Mazzani Maurizio

domenica 8 maggio 2011

Cos'è una rete neurale artificiale?

L’elemento basilare del sistema nervoso degli animali è il neurone. Esso ha la capacità di ricevere e combinare segnali provenienti di altri neuroni. Il livello di tali segnali decide se il neurone resterà inibito o entrerà in conduzione consentendo l’uscita del segnale per mezzo della sua estensione detta assone. L’assone si collega per mezzo di giunzioni dette sinapsi alle ramificazioni chiamate dentriti ove il segnale si diffonde a una gran quantità di altre neuroni. E’ questo complesso di collegamenti di neuroni che viene chiamato Rete Neuronica.
Riprodurre artificialmente la capacità di questa struttura biologica è diventato oggi obiettivo sempre più ambito. I tentativi sono stati apportati sviluppando modelli matematici che ne imitano le funzioni.


Le Reti Neurali artificiali ne sono il prodotto, esse rappresentano la realtà pratica di quei modelli matematici.

E’ alquanto noto che essendo l’informatica ortodossa efficace solamente di fronte a domini strutturati (problemi risolvibili conoscendone a priori regole e procedure), allora le Reti Neurali, lavorando proprio con realtà non prestrutturata diventano oggi oggetto di sempre più interesse.

La Rete Neurale è un particolare sistema informatico che permette di simulare il funzionamento cognitivo umano, per cui ne sostituisce, in taluni casi, la sua presenza.

La previsione non strutturata è dunque l’oggetto chiave della risposta della rete neurale.
Sommariamente il loro utilizzo avviene per problemi del tipo: supporto alle decisioni, diagnosi automatica, interpretazioni dei dati, modellazione del controllo dei processi industriali ecc.

 
Ultimamente sono state effettuate ricerche sperimentali a fine d’implementare sui Reti Neurali anche alcune funzione cognitive complesse. Una è la categorizzazione oggettiva di oggetti (Giornale Italiano di Psicologia, pag. 123-152), un seconda è la simulazione cognitiva delle metafore con rete neurale tipo Back-Propagation, una terza è l’uso di rete neurale nella valutazione dei potenziali umani. Il fulcro del funzionamento della rete neurale è la capacità intrinseca di variare la propria struttura in risposta ad informazioni di addestramento apportate dall’esterno, sviluppando un modo proprio di lavorare l’input. E’ l’apprendimento che la rende utilizzabile in simulazioni di capacità umane, è propria tale caratteristica che le permette di lavorare con problematiche non prestrutturate. 


Le Reti Neurali apprendono come l’uomo attraverso esperienze accumulate. Un’altra caratteristica fondamentale è rappresentata dalla loro capacità di lavorare con dati incompleti o incerti od ancora inquinati da errori o da rumore.
Ogni rete neurale possiede una propria architettura che la rende più idonea per la risoluzione di specifici problemi.

Mazzani Maurizio

giovedì 5 maggio 2011

L’OCCHIO DELLA CREATIVITA’ - Genio e follia

A primavera di alcuni anni fa partecipai come relatore al convegno “Arte e Medicina” inserito nel festival celebrato nella cittadina di Oriolo (Rm).
Il tema del convegno era centrato sull’unità tra mente e corpo ed in modo particolare si poneva l’accento sulla possibile esteriorizzazione del sintomo fisico attraverso la produzione creativa con il conseguente affievolimento di esso.
Certo non è stato un caso che si parli di ciò, la formazione del disturbo psichico e psicosomatico, infatti, sono spesso conseguenti al blocco dell’emozione, la mancanza d’espressione emotiva talvolta sfocia proprio nella patologia.

Diversi studi sono stati effettuati che hanno dimostrato che la sintomatologia patologica tra origine dalla insufficiente espressione dell’emozioni, C. G. Jung parlava di blocco creativo quando cercava di spiegare il perché alcune persone si trovino caratterizzate da chiusura e da mancanza d’esteriorizzazione della propria essenza emotiva.

La letteratura psichiatrica segnala da sempre una forma assai interessante di contiguità fra genio e follia. Strindberg, Schubert e Van Gogh hanno prodotto opere straordinarie dall’interno di esperienze soggettive di livello psicotico. La creatività del matematico ha punti di contatto stretti con quella dell’artista, è il caso di John Nash che si aggiunge ad una lista già lunga. Scriveva Ignazio Matte Blanco che il pensiero dell’uomo si muove continuamente su due strade diverse. Quella della logica formale caratterizzata dalla tendenza a distinguere e a precisare, e quella del sogno in cui l’accostamento è uguaglianza, la parte è il tutto, dove l’aderenza al principio di realtà non è obbligatoria.

Noi siamo esseri creativi per eccellenza, se facciamo un attimo riferimento al processo della visione, troviamo subito che esso è in un certo qual senso un atto creativo specifico. E’ nota l’espressione che la bellezza sta soltanto negli occhi di chi guarda… il mondo dell’esperienza è un prodotto dell’uomo che lo percepisce!

Non esiste corrispondenza tra l’oggetto osservato e la costruzione che il cervello effettua su tale oggetto.
Dagli studi sulle illusioni percettive degli studiosi della “Gestalt-theory” (orientamento teorico di studi psicologici orientati alla comprensione della modalità percettiva tipica dell’uomo), hanno fatto riflettere sul come percepiamo; ad esempio uno stesso schema visivo di una figura ambigua (il percepito) può essere interpretato come un profilo di una bella fanciulla, oppure di una vecchia “befana”, ovvero in un altro caso, lo stesso disegno può essere evidenziato sotto il profilo simmetrico di due facce, oppure focalizzato come figura centrale di un calice.
La prima considerazione da fare, è che la percezione (interazioni tra noi e l'ambiente materiale che ci circonda) non identifica il mondo esterno, in quanto è una simulazione ricostruttiva fortemente influenzata dall’emozione e dalle dominanti cognitive (le nostre idee sovrane), il tutto generato dal cervello sotto il controllo delle determinanti genetiche.

Pertanto vediamo il mondo non come in effetti veramente è, ma mediante sensazioni cerebrali che interpretano la realtà generando immagini, suoni, odori e sapori, per decifrare un universo che di per se stesso non è colorato ed inoltre è silente, inodoro ed insipido, …. in cui la densità della materia, relativa alla nostro tatto, produce una misura del rischio della interazione corporea con l’ambiente.

E' quindi notevolmente importante acquisire coscienza che vediamo il mondo così come lo percepiamo, perchè siamo uomini; ciò "non" vuol dire però, che la nostra elaborazione cerebrale delle percezioni sensoriali sia illusoria, ma che ciò che percepiamo è frutto di una trasfigurazione (una creazione personale) della realtà, attuata dal cervello in modo tale da essere utile alla nostra sopravvivenza ed alle nostre possibilità di indagine cognitiva e a regalaci le emozioni preziose per sviluppare la nostra creatività: pertanto è solo una più profonda riflessione creativa, su quanto percepiamo, che ci permette una più ampia conoscenza del reale
Sì, la visione è in realtà un processo costruttivo per eccellenza. Ognuno di noi dunque, nell’atto visivo costruisce la propria percezione dell’ambiente fisico.

Così ancora nella formazione del mondo delle idee troviamo un altro esempio della caratteristica intrinseca dell’essere umano quale essere prettamente creativo. Nell’interpretazione della realtà, vediamo che incorrono in tale atto elaborativo della vere e proprie attività costruttive.

L’esperienza, il corredo genetico e la particolarietà dell’ambiente, sinergicamente partecipano alla formazione del nostro bagaglio d’idee. E’ proprio esso che costituisce la fonte dalla quale attingiamo quando ci volgiamo in generale ad una nuova costruzione atta ad interpretare l’ambiente, (questo perché ognuno di noi quando interpreta il mondo, persone e ambiente fisico, costruisce dei significati che sono solo personali, dunque lo interpreta in un certo qual modo inventandolo “agendo”, quindi, su di esso con un’azione di produzione creativa). In particolare, anche nella creazione espressiva per eccellenza come ad esempio, la musica, la scrittura, l’artigianato, la pittura, che sono particolari manifestazioni dell’attività cognitiva libera del genio creativo umano, troviamo che anch’esse traggono la loro energia dal nostro magazzino di conoscenza sedimentato nel corso della nostra evoluzione ontogenetica d’interazione coll’ambiente.

Il particolare coctail ereditarietà, esperienza e ambiente, unico per ciascun individuo costituisce, dunque, la fonte dalla quale partorisce ogni forma di pensiero sia divergente che convergente.

Sì, la formazione della nostra fonte di conoscenza avviene nell’interscambio tra noi e l’ambiente (intendendo ambiente: il mondo fisico, il mondo animale e ovviamente l’interazione con i nostri simili), ed è proprio l’esperienza, come detto, che costituisce la condizione per incrementare la nostra conoscenza e favorire la produzione del pensiero divergente, e la possibilità di svincolarci dall’ideazione rigida che costituisce ostacolo alla produzione creativa.
La capacità di sviluppo dell’immaginario e predisposizione al nuovo, è infatti, basata proprio sulla liberazione dalle rigidità, costituita dai preconcetti cognitivi e delle concezioni obsolete (binari coattivi dell’attività mentale).
La presenza del pensiero divergente oltre a favorire la produzione creativa specifica capace di dare piacere per se stessa favorendo l’espressione dell’emozioni, favorisce l’emissione di risposte d’adattamento più funzionali (libere da vincoli), pertanto maggiore abilità di fronteggiamento delle difficoltà di vita, dunque dello stress. Pertanto la limitazione creativa, quindi poca flessibilità nell’adattamento all’ambiente, può portare disfunzionalità e malessere psicologico. Ciò significa che la produzione creativa premia su vasto raggio l’individuo predisponendolo, sia alla liberazione dei contenuti emotivi evitando che finiscano in “sublimazioni” patologiche, sia favorendo l’emissione di risposte d’adattamento più flessibili, il tutto rappresenta una minore vulnerabilità alla psicopatologia.

Lo sviluppo dell’immaginario, biologicamente parlando, induce in alcune aere cerebrali lo sviluppo di un’attività elaborativa parallela dell’emisfero destro (il cervello e diviso in due emisferi, di cui il sinistro è preposto all’attività convergente, razionale ripetitiva e applicativa di informazioni già acquisite, mentre il destro all’attività divergente, creativa dove la produzione del nuovo e dell’inconsueto è la caratteristica dominante), favorendo così la produzione del pensiero completo (sinergia tra i due emisferi).

Una maggiore interazione con l’ambiente offrendo l’incremento del nostro bagaglio di conoscenza, offre consequenzialmente maggiore possibilità di sviluppo dell’immaginario. La libertà dai vincoli mentali, indotta dall’incremento conoscitivo, offre dunque, un’apertura ad un’elaborazione integrata, che permettendo di svincolarci dalla consuetudine del pensiero razionale, favorisce l’attivazione di processi d’intelligenza creativa.
La ristrutturazione critica dei paradigmi cognitivi, costituisce un apprendimento come tanti altri, che stimola la produzione del pensiero divergente.

In sintesi si può dire che l’utilizzazione più completa delle attività cerebrali, ottenuta tramite strategie cognitive adatte a sbloccare e rendere flessibile l’attività associativa (le idee vengono prodotte da un processo associativo e di contiguità temporale) convergente propria dell’emisfero sinistro, può essere programmata al fine di ottenere un’attivazione sincronica della struttura parallela dell’emisfero destro, sede del pensiero divergente, in modo che la più ampia attivazione di differenti funzionalità cerebrali, faciliti l’esercizio della creatività.

Le azioni orientate alla rimozione di fattori cognitivi rigidi, per indurre una rinnovata organizzazione cerebrale tale da predisporre il cervello alla creatività, si fondano su azioni diverse, ma tutte convergenti alla scienza e all’arte in generale.
Troviamo, infatti, nell’area del pensiero divergente appartenente alla fisica moderna un esempio costituito dall’introduzione della problematica della relatività (A. Eistein), sia scienziati che artisti hanno risposto con un egregio adeguamento la loro visuale espressiva, offrendo capacità di grande duttilità cerebrale. Vediamo ad esempio nella produzione di dipinti di Salvador Dalì, l’espressione marcata di una capacità creativa che supera il modello cognitivo dello spazio cartesiano rigido e della concezione dello spazio/tempo concepite come entità assolute e indipendenti. Nei suoi dipinti “orologi molli”, troviamo, infatti, il pittore che raffigura in tal modo l’elasticità dello spazio/tempo.
Questo esempio per dimostrare che le nostre rappresentazioni mentali sono il frutto della capacità umana di trascendere il proprio patrimonio genetico, arricchendolo con nuove interconnessioni cerebrali di origine esperenziale e che possono favorire la produzione creativa.

La creatività
è un aspetto molto importante della personalità che varia
da individuo a individuo. E' basata principalmente sulla
fantasia e si manifesta in modo differente a seconda
dell'età. Il bambino più piccolo è affascinato da tutto
ciò che vede intorno a se è, e tende ad indirizzare la sua
attenzione da un oggetto all'altro.
Il più grandicello, invece, è attratto da oggetti molto
particolari come il telefono o gli oggetti di plastica
colorata in grado di diventare, ai suoi occhi, cose
immaginarie come aeroplani, treni o altro.
Può essere importante aiutare il bambino ad ampliare la
propria personalità inventando, per ogni semplice azione,
un momento avventuroso nel quale fare nuove scoperte.
Il momento dell'igiene personale o del vestirsi può essere
uno di questi: il bambino, infatti, si conoscerà meglio
sviluppando su di sé la propria creatività.

In pratica ogni singola occasione è buona per aiutare il
bambino ad ampliare la propria capacità divergente: ad esempio, una gita fuori porta può risultare utile per avvicinarlo al mondo animale e vegetale illustrando i comportamenti dei singoli animali.
Possiamo stimolare la sua curiosità a conoscere il luogo dove vive o i particolari della vegetazione e le usanze della gente del posto.
Cercare di ritagliare il tempo per trascorrere un intero pomeriggio a giocare con lui dedicandosi ad un’attività creativa come per esempio creare bambole di pezza, vestitini e tutto ciò che si può ritagliare ed incollare, costituisce stimolo alla produzione creativa del bambino!

In conclusione, una maggiore interazione con l’ambiente inteso in senso lato, un maggiore bagaglio d’informazioni, fa sicché uscendo con più facilità dalla rigidità cognitiva (quella dei binari stereotipici costituiti dalla visuale preconcettuale e dogmatica), si favorisca la produzione del pensiero divergente, come anche una maggiore capacità d’adattamento e di risoluzione delle problematiche stressanti.

Inoltre il distaccarsi dalla visuale rigida unita ad una maggiore facilità d’espressione dell’emozioni, manifestata anche attraverso una produzione creativa specifica (arte in generale, pittura, musica, scrittura, ecc,) costituisce ingrediente fondamentale per il benessere psicofisico.

Mazzani Maurizio

venerdì 22 aprile 2011

Il tempo è amico o nemico?

Ci troviamo spesso a parlare del tempo che trascorre, e della paura di non riuscire a fare tutte le cose necessarie che caratterizzano la giornata di ciascuno di noi.

Qualcuno potrebbe ironicamente dire, che il tempo sia un compagno un po’ maleducato e traditore, poiché quando se ne va non saluta, decide e va via, passa e porta con sé tutto ciò che c’è di più bello – la giovinezza – i momenti lieti ecc. Il tempo dunque, sembra essere l’artefice di tutto, anche quando stiamo vivendo un momento spiacevole, è ancora lui il protagonista, e questa volta ci viene in aiuto “proponendoci” di dimenticare ciò che ci ha reso inquieti.

Espressioni: “Il tempo fa accettare ogni cosa”, “il tempo fa passare tutto” ecc., non sono altro che la convinzione che l’oblio sia funzione di esso.
Insomma questo tempo è un amico o un nemico?

Ognuno di noi né ha la propria concezione, lo viviamo in relazione alla costruzione che abbiamo di esso. Il tempo è sì una realtà oggettiva, ma in pratica lo si vive come una realtà soggettiva. E’ la nostra convinzione di come sia e di cosa rappresenti, che lo fa vivere come un amico o come un nemico da combattere.
Il tempo non è altro che un insieme infinito di momenti, perciò basterebbe essere capaci di vivere ogni istante che ci appartiene, e sapremmo viverci il nostro tempo in totale.
La nostra vita è formata da un insieme di momenti finiti, 70/80 anni forse, magari! 100 o chi è sano come un pesce, forse ancora di più, ma pochi di più, e allora sembra giusta una riflessione: perché non vivere questi momenti finiti positivamente?

E’ vero che di primo acchito tali momenti potrebbero sembrare tanti, ma alla fine ci si accorge che sono invece molto pochi. Levate il tempo che dormite, più o meno un terzo del totale della vostra vita, il risultato è che dopo la semplice operazione di differenza, da 70/80 anni che ne erano, ne sono rimasti solamente 49/56. Ebbene sì! Avete dormito per ben 21/24 anni… incredibile!
La realtà è proprio questa. Allora perché non godersi appieno questi finiti momenti?

Sicuramente alla domanda sul perché non si riesca a gestire tali attimi, i più risponderebbero che la giornata dovrebbe essere di 48 ore invece delle normali 24, essi dicono: “il tempo non basta mai!” Altri probabilmente risponderebbero, casi più esagerati, che il tempo diventa addirittura un persecutore implacabile, che se ne va non permettendo di fare tutte le cose necessarie.

In questa realtà, infatti, è facile udire frasi di tale tipo:
- ormai la giovinezza è passata, e pensare che volevo fare dello sport!
- Io volevo imparare l’inglese ma non ne ho avuto mai il tempo!
- Io ho sprecato tutta la mia vita… non sono riuscito a combinare nulla di quello che desideravo!
- Io volevo fare tante cose, ma non avevo mai il tempo per pensare a me stessa! Ecc., ecc.
Tali espressioni sono tipiche nel nostro linguaggio e se ne trovano a bizzeffe.
Ma da cosa nascono?
Esse sorgono proprio dalle nostre convinzioni, la credenza che il tempo lo si possa solo subire e non viverlo da protagonisti, una concezione irrazionale che porta ad essere solo degli spettatori che osservano la propria vita.

Ora facciamo una riflessione – immaginate di trovarvi in vacanza, per esempio in montagna, state percorrendo un delizioso viottolo tra gli alberi, tutto presumerebbe che possiate godervi appieno la vostra giornata da soli o, se siete in compagnia, con i vostri cari. Ad un certo punto, per esempio, cominciano a sopravvenire nella vostra mente pensieri relativi a cosa avreste dovuto fare in ufficio prima di andar via, o alle bollette da pagare al più presto onde evitare che scadano; ai problemi affrontati giorni addietro con i vostri colleghi, che creano nella vostra mente un continuo rimuginare ecc., ecc.

Aspetti passati sui quali non è possibile far nulla, o per lo meno, è certo, non in tale momento, ma che decidono il colore del vostro presente.
A ciò consegue che:
- cominciate purtroppo a non stare bene, le preoccupazioni invadono il momento presente;
- quella che poteva essere una deliziosa giornata, diventa decisamente fastidiosa ed inquieta;
- avete perso l’occasione di essere “felici”, e non dico perché avreste potuto vincere milioni di euro al Superenalotto, ma semplicemente perché avreste potuto vivere realmente il momento.
Cari lettori avreste potuto vivere – si dico proprio, semplicemente vivere!

Ora esaminando il versante opposto quello del futuro, ci accorgiamo che anche quello, di fatto, non c’è, per la semplice realtà che deve ancora arrivare.
Se il vostro pensiero è avvalso da problematiche di là da venire, per esempio: risolvere determinati problemi che caratterizzano la casa; o terminare ciò che è rimasto in sospeso del lavoro, e che vi siete proposti di fare al vostro ritorno, ecc., ecc. – vi trovereste di nuovo a non vivere il presente, per cui si verificherà quello che ho già asserito… l’impossibilità di vivere il fuggente attimo!
La conclusione appare ora ovvia e semplice, il punto è riuscire a vivere “IL QUI ED ORA”, “L’ATTIMO FUGGENTE”, “IL CARPE DIEM”

Se pensate continuamente a ciò che dovreste fare in futuro o piangete in continuazione su quello che non siete riusciti a fare in passato – NON VIVETE LA VOSTRA VITA!
Un semplice consiglio, quegli attimi che scappano e che non torneranno mai più, viveteli magari come se ciascuno fosse l’ultimo, cercando di non guastarli, a volte con pensieri inutili, come detto, o con comportamenti stupidi che hanno solo il fine di difendere, forse, il vostro orgoglio, e che poi, come spesso accade, dissipata l’ira, e sopraggiunta la razionalità, vi pentite. Viveteli al massimo uno dopo l’altro, dando a ciascuno di essi un tono allegro, positivo, creativo, e perché no magico!

Siate intelligenti e catturate quello che può rendervi non dico felici, ma almeno quel tanto liberi da consentirvi d’assaporare almeno un minimo il variopinto arcobaleno dell’esistenza!


Mazzani Maurizio

mercoledì 23 marzo 2011

Organizzazione della conoscenza e vissuto dello stress

Eccomi a parlare di stress, argomento di sempre più attualità, poiché costituisce, a nostro malgrado, una realtà che avvolge, chi più e chi meno, tutti quanti.
Non è certamente un caso, dunque, che parli di stress e soprattutto della modalità interpretativa con la quale costruiamo le avversità della vita che ci si presentano. E’ proprio il nostro atteggiamento mentale verso le negatività, che deciderà la particolare drammaticità dei comportamenti e delle emozioni che ne seguiranno.
Ritengo, pertanto utile, comprenderlo il più a fondo possibile, al fine di avere più conoscenza disponibile per potergli far fronte.

Il nodo centrale, è che la capacità di gestione dello stress può essere incrementata attraverso la conoscenza dei meccanismi mentali che lo regolano.
L’entità dello stress non consegue automaticamente da eventi ritenuti oggettivamente negativi, ma esiste tutta una serie di fattori personali (le proprie cognizioni) che decidono come un evento qualsiasi inciderà sul nostro stato di salute.
La conoscenza personale, il nostro bagaglio di informazioni “sedimentato” nella memoria nel corso degli anni, quale frutto delle esperienze di reciprocità tra la nostra struttura mentale e il mondo, costituisce il filtro attraverso il quale osserviamo e costruiamo gli eventi di vita. Con tale bagaglio si intendono gli schemi cognitivi, la capacità previsionale, le aspettative, che si adoperano su se stessi e sul mondo.
Il modo di percepire, di interpretare o meglio di costruire la realtà, che è un modo personale ed unico di elaborare gli input interni ed esterni afferenti al nostro sistema cognitivo, è dunque il centro della vita mentale.

Il punto è proprio qui, l'angolazione, l'ottica con cui interpretiamo e valutiamo gli eventi, le cognizioni che abbiamo su di essi, sono il fulcro del nostro divenire sia esso felice od infelice.
Pertanto, quando parliamo delle nostre reazioni agli eventi delle vita, dobbiamo fare attenzione a distinguere fra il valore oggettivo del potenziale agente di stress, e il valore soggettivamente attribuito, che determina l'effettiva risposta fisica e psichica ad esso correlato.
L'uomo non è strettamente determinato dall'ambiente, né dal suo passato, né dalle sue pulsioni, ma dal modo con cui soggettivamente costruisce la conoscenza di sé stesso, del suo ambiente e della sua storia.

E’ “la sedimentazione conoscitiva" che acquista una grande importanza nel decidere se un avvenimento, anche traumatico, avrà effetto sul l'equilibrio psicofisico dell'individuo.
E' la vecchia conoscenza, che imponendosi coattivamente, costituisce il substrato sul quale accomodare la nuova conoscenza (la costruzione del nuovo evento), la quale dovrà necessariamente accettare compromessi prima di fissarsi come "dato nuovo". Inevitabilmente quest'ultima sarà influenzata dalla prima, ed insieme segnano il personale modello interpretativo con il quale ognuno di noi costruisce il mondo e se stesso… da qui l'espressione che noi adattandoci all'ambiente in cui viviamo, non facciamo altro che costruirlo.
Costruire significa semplicemente interpretare la realtà in un modo personale, un modo particolare di osservare e spiegare il mondo che viene costruito attraverso l'esperienza. La realtà non verrebbe quindi scoperta, come molti erroneamente credono, ma semplicemente inventata!

Il patrimonio conoscitivo, la modalità con cui l'individuo entra in relazione con se stesso e il suo ambiente, e ne attribuisce i significati e previsioni, nasce con noi e ci accompagna per tutta la vita. Inizia col rapporto di scambio tra il neonato e le figure significative, cioè nel periodo chiamato dell’attaccamento (periodo in cui la sopravvivenza è strettamente dipendente dalla figura d’accudimento) e, nel quale è integrato il corredo conoscitivo innato (i primari costrutti fisici d’interazione utili alla sopravvivenza, es: il pianto, il sorriso, il dolore, ecc.), producendo l’aumento del patrimonio dei costrutti. Quest’ultimi intesi come unità elementari di conoscenza, e il loro insieme costituisce il personale modo di osservare la realtà.
Spiegato in senso lato, i costrutti costituiscono non altro che il nostro modo di pensare, i nostri “gusti e giudizi”, insomma, detto molto semplicisticamente “ciò che ci piace e ciò che non ci piace”.
In sintesi, l'attività del conoscere sottende l'attività del costruire, la quale a sua volta sottende l'attività del prevedere. Il prevedere è il formarsi un “infinito” numero di costrutti, che ci permettono di sapere, in ogni momento che n’abbiamo bisogno, ad esempio:
-come siamo, come sono gli altri;
-come ci comporteremo, come si comporteranno;
-cosa ci piacerà, cosa gli piacerà; ecc., ecc.
Insomma previsioni su se stessi o sul mondo.

Tale conoscenza da la possibilità di programmare il proprio agire in relazione agli obiettivi che l'individuo stesso si propone.
Conoscere, per l'uomo, è l'impulso primario che governa ogni suo comportamento, ogni sua azione, per raggiungere la sicurezza sull'ambiente, che rappresenta la pietra angolare del suo benessere.

Gli studi sulla psicologia della percezione c’insegnano che non si vedono gli oggetti "perché esistono", ma soltanto dopo un elaborato processo di costruzione, allo stesso modo non si rievocano gli oggetti o le risposte semplicemente perché nella mente esistono le loro tracce, ma soltanto con un analogo processo di ricostruzione (nel quale si fa uso dell'appropriata informazione presente nella memoria). Noi percepiamo "il nuovo", costruendolo sull’informazione costituita dalle tracce dei processi di costruzione precedenti, cioè non esistono in magazzino copie d’eventi mentali completi, ma solamente segmenti della precedente attività costruttiva, se così non fosse dovremmo possedere una capacità mnestica inimmaginabile! Le tracce, dunque, non sono semplicemente "rivissute" o "riattivate", al contrario, i frammenti memorizzati sono utilizzati quale informazione per una nuova costruzione (la nuova invenzione!).

Parafrasando, ciò significa che ogni qualvolta giungano delle informazioni al nostro sistema mentale (es. nuovi dati prodotti da una esperienza in corso), la loro valutazione avviene in modo prettamente soggettivo, poiché l’elaborazione dell’informazioni si fonda, sia sulla presa in atto dei dati presenti (inerenti l’esperienza), sia sui dati pregressi (la sedimentazione conoscitiva già presente in memoria), che creando le aspettative su ciò che si sta conoscendo, ne determina l’interpretazione.
Il punto più che importante sul quale soffermarci è proprio questo: se tale conoscenza pregressa si è formata in condizioni disfunzionali d’interazione (reciprocità disadattiva tra genitori e figli) l’elaborazione dei nuovi dati, sarà purtroppo colorata da tale valenza disfunzionale, compromettendone così la costruzione in atto… ed ecco, dunque, sopraggiungere la psicopatologia
L’oggettività che erroneamente si ritiene possiedano le nostre idee, cade di fronte a tale realtà in cui (visuale costruttivista della conoscenza), ogni nostra costruzione è sempre e sempre un’invenzione! (un atto creativo per eccellenza), come ho più volte asserito.
Pertanto a ciò dobbiamo che il comportamento, da individuo ad individuo, e nello stesso individuo, da momento a momento, è differente; crediamo e pensiamo cose diverse, abbiamo mentalità diverse, cioè prevediamo cose diverse.

Precisando, il progressivo cambiamento di conoscenza ha luogo nel momento d’incontro tra la conoscenza posseduta, che crea aspettative e la verifica di queste con l’esperienza. In tale momento avviene la validazione e l’invalidazione, che costituiscono il dinamismo centrale dell'acquisizione di conoscenza.
L’invalidazione in particolare rappresenta l'occasione d’arricchimento e di sviluppo delle capacità previsionali (cioè possibilità di sostituzione di costruzioni errate). Inoltre, si può dire che l'incremento conoscitivo, (aumento di complessità cognitiva) ci consente una maggiore disponibilità di soluzioni, come anche una maggiore malleabilità al decentramento dalla propria visuale soggettiva, che è elemento centrale per il buon funzionamento psichico.
E' il sistema di conoscenza dell’individuo, le sue convinzioni centrali in particolare (l’immagine posseduta di se stessi, es. buoni, altruisti, amabili, intelligenti, ecc., ecc.), che decidono il livello di vulnerabilità posseduto, e le reazioni psicofisiologiche che saranno messe in atto di fronte ad un potenziale agente di stress (agente che agisce potenzialmente invalidando o solamente ritenendo che invalidi proprio tali aspetti, centrali per la salute dell’individuo).
Insuccessi, rifiuti, perdite, è impossibile evitarli, ma dal punto di vista psicologico "non è importante l'evento in sé" come più volte affermato, quanto il modo con cui si reagisce, cioè la propria reazione emozionale. "Non è importante ciò che succede", ma il modo come lo prendiamo rappresenta il fondamento della salute. A riguardo, ricordiamo per esempio, affermazioni di grandi autori come: C. Du Bois, secondo il quale le idee scorrette producono disagio psicologico; A. Adler, con la sua contrapposizione tra "intelligenza privata" e "senso comune"; Kant, il quale riteneva che le malattie mentali si manifestano quando una persona non riesce a correggere il suo "senso privato" con il "senso comune"; e persino in Marco Aurelio: "se ti è data sofferenza da qualche cosa esterna, non è questa cosa che ti disturba, ma il giudizio su di essa, ed è in tuo potere eliminare questo giudizio”; ancora in Epitteto, "gli uomini non sono mossi dalle cose, ma dalle visioni che di esse hanno".

Pare dunque accertato, che il modello personale con il quale ci si pone in rapporto con la realtà, sia di indiscutibile centralità, per cui è bene non disconoscere l’importanza della struttura cognitiva tipica dell'individuo conoscente, quando si parla di valore stress.
Gli schemi cognitivi, che ciascuno sviluppa durante tutta la sua vita, si ancorano primariamente durante i primi anni, al contatto col mondo esterno e con le esperienze interne. Essi sono una specie di "filtro" attraverso il quale osserviamo il mondo e noi stessi in un modo che è specifico per ciascuno. Inoltre definiscono da un lato, le aspettative su ogni contesto e i calcoli possibili da compiere, dall'altro, le limitazioni conoscitive tipiche all'individuo al quale lo schema appartiene. Vediamo che questi schemi costituiscono proprio la capacità predittiva dell'individuo. Con ciò s’intende che, i sistemi viventi e le persone in particolare, modificano costantemente le proprie costruzioni del mondo, degli altri e di sé e che tale cambiamento rappresenta l'aumento della conoscenza, quindi della sua capacità di previsione.
Tali schemi, quando disfunzionali, costituendo una limitazione all'incremento conoscitivo, quindi della capacità di previsione, rappresentano la limitatezza del sistema e, l'essenza della nostra "vulnerabilità individuale". Questi attivano facilmente pensieri negativi in maniera automatica, (non preceduti da riflessione), persistenti e talvolta talmente rapidi che sfuggono alla consapevolezza dell'individuo, costituendo parte della conoscenza automatica e/o inconsapevole.
L'attivazione di schemi disfunzionali e l'occorrenza di pensieri automatici negativi, si accompagnano costantemente ad esperienze emotive negative e ad una reazione comportamentale e biologica (lo stress), che è conseguente allo schema attivato.

Dunque, se un'esperienza "dannosa" la interpretiamo come catastrofica, ecco che il cuore, il sistema immunitario e il sistema digerente ecc. sono messi a grave rischio. Se la cosa è osservata sì come negativa, ma non tanto spaventosa da non poterla assorbire, la risposta dell'organismo è meno invasiva. Pertanto, l'attività biochimica cerebrale aumenta solo quel poco da permettere una risposta efficace, senza ridurci all'impotenza.
Oggi si è in grado di poter identificare, almeno in parte, i meccanismi tramite i quali fattori psicologici e sociali agiscono sui processi biologici. Se per esempio, l'individuo può determinare troppo poco la propria esistenza, o se le circostanze contrastano con il raggiungimento dei suoi scopi e dei suoi bisogni fondamentali di amore e d’attaccamento, l'esperienza ci dice che aumenta la "vulnerabilità" non solo alle malattie in generale, ma anche alle patologie neoplastiche.
La ricerca sperimentale indica che è particolarmente importante, ai fini degli effetti psicologici e fisiologici di un evento stimolo, la possibilità per il soggetto di esercitare un qualche controllo sull'agente stressante.
Qui entra in gioco l’importanza della percezione della propria efficacia, ciò significa come la mente si ponga di fronte ad un problema da risolvere o ad un obiettivo da raggiungere; argomento già trattato precedentemente in altro articolo.

In conclusione, per conoscere se certi eventi della vita correlano con un quadro di disagio psichico (presenza di ansia, angoscia, paure irrazionali, depressione, affaticamento mentale, rituali ossessivi ecc.), principalmente bisogna vedere in che modo si valutano e si affrontano le proprie esperienze!

Mazzani Maurizio

venerdì 18 marzo 2011

Il counseling cos'è

La traduzione letterale di counseling è "dare consigli", ma tale traduzione è riduzionistica. Il counseling entra in gioco in ogni situazione ove la persona si trovi ad affrontare problematiche di difficile gestione. Il counselor interviene quando una il soggetto ricerca aiuto per gestire con maggiore efficacia uno o più problemi che invadono la sua vita. L'obiettivo del counseling, infatti, è quello di aiutare ad individuare le proprie capacità e punti di forza.

Le attività di counseling possono essere ricondotte secondo la British Association for Counseling a:
-indicazione delle opzioni di cui il soggetto dispone ed appoggiarlo in quella che sceglierà;
-promuovere dei cambiamenti esaminando in particolare le situazioni o i comportamenti problematici;
-indurre fondamentalmente l'autonomia, ricercando insieme alla persona la sua verità.

Il counselor è un consigliere competente che, a differenza dell'aiuto apportato da un familiare, di un amico, ecc., non è coinvolto emotivamente, per cui può agire con maggiore distacco, una leggera lontananza è utile in modo che la sua emotività non intacchi il processo d'aiuto.
Il counselor è una presenza supportiva, non giudicante che si propone come valido appoggio psicologico nei momenti di crisi. Egli offre una serie di competenze atte a promuovere una buona comunicazione e ad incoraggiarela persona a parlare liberamente, a esprimere le emozioni intense di qualunque valenza: sia positive che negative, e portarlo pian piano alla comprensione di se stesso.

L’ottenimento di tali obiettivi avvengono all'interno di una struttura il (framework) ove il counselor lavora. Lo vediamo all'opera con un atteggiamento di completo rispetto per il paziente, accettandolo in ogni sua caratteristica, ma nello stesso tempo fornendo quegli utili input tali da metterlo in lieve discussione. Il fine è sempre promuovere un cambiamento verso un adattamento migliore.
E’ bene dire, infine, che l’attività di counseling la vediamo presente in primo piano negli interventi psicoterapici, poiché il terapista, ovviamente, deve essere in primis un eccellente counselor.

Mazzani Maurizio