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martedì 8 giugno 2010

Che cos'è l'ottimismo? si può diventar ottimisti? come si fa in tal caso?

Dietro questa rassegna di domande c’è sicuramente la voglia di capire cosa sia, ma soprattutto sapere se sia realmente apprendibile, o se devono rassegnarsi coloro che non possiedono tale qualità.
Vi rassicuro subito, l’ottimismo non è un pregio innato, bensì un modo d’essere che può essere appreso.
Interessante… vero!
Esso costituisce una particolare modalità di rapportarsi con se stessi, e può costituire la base per una vita più serena.

Perché asserisco ciò?

Semplice, poiché esso essendo un particolare stile di dialogo interiore con il quale si affrontano le avversità, ne consegue che da esso dipende il nostro benessere.
Tale linguaggio interiore rappresenta “la guida personale” che ognuno si forma dal primario linguaggio egocentrico, caratteristico del periodo infantile (linguaggio che il bambino piccolo usa anche a voce alta tra sé e sé, in special modo durante il gioco).
Esso è l’insieme sia dei pensieri consapevoli sia di quelli automatici, quest’ultimi sono quelli che hanno la caratteristica di by-passare l’intelligenza razionale, quindi, il controllo volontario (in un certo qual senso costituiscono il famoso inconscio freudiano).

E’ attraverso questo parlare tra sé e sé che nell’età adulta si effettuano le funzioni di controllo. Tale linguaggio è il pensare tra se stesso, quello che avviene silenziosamente per sommi capi, e costituisce la stabilizzazione e la guida del nostro comportamento. Tramite esso noi monitoriamo le nostre azioni, le valutiamo autoerogandoci premi e punizioni, esso non è altro che il nostro stile esplicativo con il quale ci spieghiamo fallimenti e successi.

Avere uno stile ottimistico ci permette di vivere le avversità meno pesantemente. Tale stile, infatti, è contrassegnato da una modalità costruttiva positiva di affrontare la vita; ciò porta il più delle volte ad evitare di penalizzare se stessi quando ci si trova di fronte ai fallimenti. Ogni spiegazione è circoscritta al semplice evento spiacevole.

Quello che importante comprendere è che lo stile esplicativo pessimista e ottimista non si differenziano soltanto dalle diversità del contenuto del dialogo, ma anche, ed è la cosa più importante, dalla modalità con la quale si attribuiscono le cause.

I fallimenti hanno il potere di farci sentire impotenti, l’impotenza che ne risulta è chiaramente appresa, e produce generalmente soltanto sintomi depressivi temporanei, a meno che possediamo uno stile esplicativo pessimistico. In tal caso un elementare inconveniente, una semplice sconfitta, può farci sprofondare in una depressione grave.
La personalizzazione, la pervasività e la permanenza sono gli ingredienti che caratterizzano lo stile esplicativo pessimista, ma acquisendo una nuova conoscenza essi possono essere moderati o addirittura cambiati.
Il modo di rapportarsi al reale con tale stile comporta non pochi problemi. Vediamo che il pessimista attribuisce (personalizza) i motivi dei suoi potenziali fallimenti a se stesso ad esempio: (“è causa mia se ho fallito”); generalizza globalmente (“giacché non sono stato capace a parlare opportunamente in quella circostanza, non valgo nulla”); ed infine lo proietta permanentemente nel tempo (“tale errore lo subirò tutta la vita”). Ne consegue che ad una tal persona, è facile dedurlo, basta un semplice fallimento nel lavoro o negli affetti per cadere in depressione.

Appare, dunque, razionale che tale aspetto negativo con il quale ci rapportiamo al reale, sia preso di mira per essere cambiato. Il punto interessante è proprio qui: è il tipo di stile esplicativo che decide se saremo o no persone felici.

Ma non preoccupatevi! Con un opportuno training di acquisizione di nuova conoscenza si può apprendere quello ottimista, come qualsiasi altra abilità che possa essere appresa attraverso un semplice allenamento.
Per meglio spiegare lo stile esplicativo ottimista, aggiungo inoltre, che l’atteggiamento positivo nei confronti della vita che lo caratterizza, è volto verso un ampio raggio d’azione. Ma badate bene, con atteggiamento positivo non intendo, come alcune correnti psicologiche affermano, il pensiero che delinea i banali proponimenti da ripetersi innumerevoli volte, tipo: “ho fiducia nel mio successo e nelle mie qualità”; “voglio amar me stesso e gli altri”; “io so di farcela”, “mi accetto come sono”; “ valgo tanto da raggiungere qualsiasi obiettivo”; ecc., ecc., ma, rappresenta l’abilità di non condurre il proprio pensiero contro se stessi producendo danno, bensì a nostro favore, producendo benessere. Il suo raggiungimento si può ottenere attraverso un training cognitivo orientato all’autoconoscenza e alla correzione del pensiero irrazionale e falsamente diretto, in modo da acquisire l’atteggiamento positivo. Riuscendo a cambiare la modalità errata, quindi svantaggiosa con cui pensiamo ai nostri problemi, (un problem solving costruttivo), consegue così l’affievolimento, per esempio la disforia seguita ad una qualsiasi avversità, che per estremo può essere, se razionalmente costruita, addirittura tramutare in euforia.
Si possediamo questo potere… noi siamo ciò che pensiamo!
Non esistono energie interne talmente forti, come asseriva la psicoanalisi, o condizionamenti talmente efficaci, come asserisce il comportamentismo americano, tali da decidere quello che siamo!

Mazzani Maurizio

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